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Gli aspetti giuridici
del commercio elettronico In questa Guida si è affrontato il fenomeno Internet e le
principali problematiche di chi (soprattutto piccole e medie imprese)
decide di essere presente all’interno della “rete delle reti”.
Per completare questa trattazione è però necessario illustrare
quali siano le principali regole giuridiche che disciplinano
il commercio telematico, con l’avvertenza – sin d’ora – che
il quadro tracciato, finalizzato ad offrire un primo strumento di
orientamento, non si prefigge di affrontare con completezza
ogni questione, rinviando il lettore a trattazioni tecniche più
specifiche per ulteriori approfondimenti .
In via generale deve premettersi che ogni attività economica
su Internet, presuppone il rispetto delle regole che sovraintendono allo
svolgimento dell’attività medesima. Pertanto (anche) per
operare in Rete, è necessario il rispetto: a) delle
condizioni e presupposti di legittimazione soggettiva
all’attività; b) delle regole che concernono lo svolgimento
dell’attività medesima, da parte del soggetto legittimato;
c) delle regole che attengono oggettivamente al prodotto o
al servizio. Per quanto attiene al primo dei punti sopra
evidenziati, per legittimazione soggettiva – si parla, va da
sé, dal punto di vista
amministrativo e non da quello prettamente civilistico – s’intende
il possesso, da parte dell’interessato, di tutti i requisiti
che la legge richiede affinché questi possa svolgere l’attività.
Si pensi, per fare un esempio, a colui che intenda svolgere su
Internet l’attività di agente di commercio o di mediatore. La
circostanza che tale attività sia svolta “in Rete” non esclude la
necessità da parte del soggetto del rispetto della legge 3 maggio
1985, n. 204 (recante la disciplina dell’attività di agente e
rappresentante di commercio), ovvero della legge 3 febbraio
1989, n. 39 (sulla disciplina della professione di mediatore).
In entrambe le fattispecie - scelte volutamente nell'ambito
degli intermediari della distribuzione commerciale - per es., è
prevista l’obbligatoria iscrizione in un Ruolo pubblico tenuto
presso la Camera di commercio territorialmente competente,
nonché uno stringente regime di incompatibilità. Il tutto salvaguardato
da un sistema di sanzioni amministrative e, per i mediatori,
anche di natura penale. Ovviamente, non vi è ragione
alcuna per ritenere che lo svolgimento tramite Internet dell’attività
di agente di commercio ovvero di mediatore non debba
essere preceduta – esistendone i presupposti – dall’obbligatoria
iscrizione nei rispettivi ruoli.
Circa il secondo punto sopra evidenziato, ossia il rispetto
delle regole che concernono lo svolgimento dell’attività medesima,
queste, restando all’esempio degli agenti di commercio
e dei mediatori, sono disegnate dal codice civile, rispettivamente,
agli artt. 1742-1753 e 1754-1756 34.
Quanto, infine, alle regole che attengono oggettivamente al
prodotto o al servizio, deve ricordarsi che l’attività di vendita,
ovvero di prestazione di servizi può comportare la sottoposizione
ad alcune regole che attengono allo stesso prodotto o al
servizio, come, le regole particolari per la vendita di armi da
fuoco, dei medicinali, etc. Un chiaro esempio sono, per es., le disposizioni relative agli obblighi
specifici posti in capo al mediatore professionale in affari su merci, di
cui all’art. 1760 cod. civ.
Occorre poi definire cosa debba intendersi per “commercio
elettronico” ai fini delle disposizioni contenute nella normativa
applicabile.
Una prima indicazione per tale individuazione ci viene fornita
dalla Commissione UE che, nella Comunicazione “Un’iniziativa
europea in materia di commercio elettronico” [COM (97)
157], definisce il “commercio elettronico” come “lo svolgimento
di attività commerciali e di transazioni per via elettronica e
comprende attività diverse quali: la commercializzazione di beni
e servizi per via elettronica; la distribuzione on-line di contenuti
digitali; l’effettuazione per via elettronica di operazioni finanziarie
e di borsa; gli appalti pubblici per via elettronica ed altre procedure
di tipo transattivo delle Pubbliche Amministrazioni” 35.
La definizione offre – seppur nella sua eccessiva ampiezza
– un primo significativo dato: il commercio elettronico non è
solo quello relativo agli scambi realizzati tra computers collegati
in una rete telematica (come Internet), ma a tutte le fattispecie
che implicano l’adozione di strumentazioni elettroniche,
indipendentemente dalle modalità e dalle procedure seguite,
si pensi al videotext, alle televendite in radiodiffusione,
alle applicazioni su reti “proprietarie” pubbliche o private (reti
chiuse di impresa, circuiti bancari, etc.), nonché alle c.d. offerte
off-line, per es. tramite cataloghi su CD-Rom, etc.
Un’altra indicazione che si può ravvisare dall’approccio
descrittivo del legislatore comunitario consiste nel fatto che il
commercio elettronico non si esaurisce nello strumento utile
per il contatto tra fornitore e compratore, ma si estende a tutte
le fasi della distribuzione (eccettuata la consegna che, se si
tratta di beni materiali, avverrà tramite i consueti canali): dalla
ricerca del potenziale compratore, alla fase della trattativa e
negoziazione, alla stipulazione del contratto, al pagamento dei
prodotti o servizi acquistati e, nel caso di vendita di beni im- Questa definizione è ripresa anche nel documento realizzato dal Minindustria,
Linee di politica per il commercio elettronico, in www.minindustria.
it/Osservatorio/pol_ce_ita.html (nonché, Roma, Sipi, 1999, p. 8).
materiali (per es. software, informazioni, ovvero altri servizi, etc.), anche alla consegna.
Che l'approccio del legislatore comunitario sia prevalentemente
di convergenza politica sul tema è ulteriormente testimoniato
dalla definizione contenuta nella recente Direttiva comunitaria
n. 2000/31/CE, dell'8 giugno 2000, relativa “a taluni aspetti
giuridici del commercio elettronico nel mercato interno” 36, che inserisce
il commercio elettronico nell’alveo dei "servizi della società
dell’informazione", di cui alla direttiva 98/34/CE del 22 giugno
1998, come modificata dalla direttiva 98/48/CE del 20 luglio
1998 37, intendendosi per tali "qualsiasi servizio prestato normalmente
dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta
individuale di un destinatario di servizi, cioè della persona
fisica o giuridica che, a scopi professionali e non, utilizza un servizio
della società dell’informazione, anche per ricercare o rendere
accessibili delle informazioni".
Infine, mentre nella concezione di "commercio" consegnata
dalla nostra tradizione della legislazione commerciale, come più
avanti vedremo, si fa riferimento al rapporto intercorrente tra una
impresa ed un’altra impresa (commercio all’ingrosso) ovvero tra
un’impresa ed un consumatore finale (commercio al dettaglio),
nella descrittiva dell’Esecutivo comunitario si individuano come
fattispecie di “commercio elettronico” anche quelle intercorrenti
tra e con la pubblica amministrazione, a significare la trasformazione
dei rapporti di matrice pubblicistica all’interno delle regole
di diritto privato.
Quest’ultima osservazione è testimoniata dalla definitiva
consacrazione della cittadinanza giuridica al documento informatico,
secondo quanto previsto - ai sensi dell’art. 15 della
legge 15 marzo 1997, n. 59 - dal D.P.R. 10 novembre 1997, n.
513, in materia di documento informatico e firma digitale (attuato
con il D.P.C.M. 8 febbraio 1999), argomento sul quale –
buy it
36 Di cui si dirà, più avanti, nel par. 9.8.
37 Pubblicate, rispettivamente, in GUCE L 204 del 21 luglio 1998, p. 37
ss., e GUCE L 217 del 5 agosto 1998, p. 18 ss.
data la rilevanza proprio nell’uso delle reti informatiche – è in
corso un dibattito anche in sede sovranazionale 38.
Con il D.P.R. n. 513/97 il nostro legislatore ha dunque attribuito
validità e rilevanza ai documenti informatici, costituendo
pertanto la base per la contrattazione su Internet, superando i
dubbi e le difficoltà di un riconoscimento ai contratti digitali
della stessa tutela che l’ordinamento appresta al documento
cartaceo tradizionale.
È il caso, dunque, di cominciare la nostra trattazione proprio
da quest’ultimo importante testo normativo.
9.2_Le basi del commercio elettronico:
il documento informatico e la firma digitale
L'art. 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59 (meglio
nota come legge “Bassanini 1”) ha stabilito che “gli atti,
dati e documenti formati dalla pubblica Amministrazione e dai
privati con strumenti informatici o telematici, i contratti stipulati
nelle medesime forme, nonché la loro archiviazione e trasmissione
con strumenti informatici, sono validi e rilevanti a tutti gli effetti
di legge”.
L'attuazione di questa disposizione è stata demandata ad
appositi regolamenti, il primo dei quali, il citato D.P.R. n.
513/97, ha stabilito egli elementi giuridici principali della formazione,
trasmissione e archiviazione dei documenti informatici
e telematici, rinviando ad apposite regole tecniche il completamento
del quadro disciplinare 39.
In estrema sintesi, il Regolamento definisce il documento
38 Si v. la Direttiva 1999/93/CE del Parlamento europeo e del Consiglio,
del 13 dicembre 1999, relativa ad un quadro comunitario per le firme
elettroniche (in GUCE n. L 13 del 19 gennaio 2000, p. 12), rinvenibile
- come tutti gli altri documenti comunitari citati nel corso della trattazione
- all'interno del sito www.europa.eu.int. Da ultimo - ben due anni
dopo il nostro paese - anche gli Stati Uniti si sono dotati di una normativa
federale sulla materia con la legge 106-229 del 30 giugno
2000, Electronic Signatures in Global and National Commerce Act.
39 Con il D.P.C.M. 8 febbraio 1999, emanato ai sensi dell'art. 3 del
informatico come "la rappresentazione informatica di atti, fatti
o dati giuridicamente rilevanti" (cfr. art. 1, lett. a) e gli attribuisce
piena rilevanza giuridica a tutti gli effetti di legge.
Il documento informatico, munito dei requisiti previsti dal Regolamento,
soddisfa il requisito legale della forma scritta (art. 4).
Per poter conseguire la stessa efficacia della scrittura privata
– connotata dall'apposizione in calce allo scritto della sottoscrizione
– il regolamento prevede il meccanismo della firma
digitale, basata su un sistema di crittografia a doppia chiave
asimmetrica di cifratura (pubblica/privata) 40, in grado di assolvere
alle seguenti funzioni:
autenticazione, intesa come processo in forza del
quale il destinatario di un messaggio digitale ha la certezza
della identità del mittente;
integrità del documento;
segretezza, riferito al contenuto del messaggio trasmesso
che può essere conosciuto solo dal legittimo
destinatario;
non ripudiabilità da parte del sottoscrittore.
Il documento informatico sottoscritto con firma digitale ha
l’efficacia della scrittura privata ai sensi dell’art. 2702 cod. civ.
(art. 5), ossia fa “piena prova, fino a querela di falso, della provenienza
della dichiarazione da chi l’ha sottoscritta, se colui contro
cui la scrittura è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se
questa è legalmente considerata come riconosciuta”.
D.P.R. n. 513/97, sono state dettate le regole tecniche per la formazione,
la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la riproduzione e la
validazione anche temporale dei documenti informatici. Infine, l'AIPA -
Autorità per l'informatica nella pubblica amministrazione - con la Circolare
26 luglio 1999 n. AIPA/CR/22 ha indicato le modalità per la presentazione,
da parte dei soggetti interessati, della domanda di iscrizione
nell'elenco pubblico dei certificatori, di cui all'art. 8, comma 3, D.P.R. n.
513/97 e art. 16, comma 1, D.P.C.M. 8 febbraio 1999. Per ulteriori informazioni
si rinvia al sito www.aipa.it.
40 Per una illustrazione del sistema di cifratura a doppia chiave, si rinvia,
oltre al sito dell'AIPA, a www.rsa.com e www.infocamere.it
È previsto altresì il documento informatico con firma digitale
autenticata, con efficacia di scrittura privata autenticata a
norma dell’art. 2703 cod. civ., che richiede la presenza del notaio
o di altro pubblico ufficiale (art. 16).
Per quanto attiene più da vicino al commercio in rete, l’art.
11, comma 1, del D.P.R. n. 513/1997, afferma che “I contratti
stipulati con strumenti informatici o per via telematica mediante
l’uso della firma digitale (...) sono validi e rilevanti”, se rispettano
le disposizioni contenute nel decreto.
L’espressione “validi e rilevanti”, in coordinazione con
quanto previsto nell’art. 4 (laddove si afferma che il documento
informatico soddisfa i requisiti della forma scritta), significa
che il legislatore equipara sostanzialmente i contratti telematici
a quelli redatti in forma scritta.
Sul fronte delle regole applicabili a tale modalità di contrattazione,
il Regolamento non è particolarmente esaustivo, limitandosi
ad affermare che "si applicano le disposizioni previste
dal D.Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50", che disciplina la vendita
effettuata fuori dei locali commerciali, con le regole che saranno
esaminate al par. 9.5.
Il solo rinvio al D.Lgs. n. 50/92 non significa, tuttavia, che
nel nostro ordinamento non esistono altre regole applicabili al
commercio elettronico, a cominciare da quelle contenute nel
codice civile ed in altre discipline speciali che, se del caso, con
i dovuti “adattamenti” interpretativi legati alla realtà informatica
e telematica, forniscono, senz'altro, ulteriori indicazioni.
9.3_La definizione di commercio e le regole
contenute nell'art. 18 del D.Lgs. n. 114/98 Il commercio e il commercio
elettronico Innanzitutto, punto di partenza necessario del
commercio elettronico è una ricognizione sul fronte
amministrativo, ossia verificare se esistono delle
autorizzazioni per i soggetti che intendono vendere su
Internet.
Il nostro ordinamento impiega l’espressione “commercio
elettronico” solo all’art. 21 del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 114
(recante – com’è noto – la riforma della disciplina del commercio,
conosciuto anche come “Decreto Bersani”) 41, laddove
prevede, a carico del Ministero dell’Industria, il compimento di
azioni volte a promuovere “(…) l’introduzione e l’uso del commercio
elettronico (…)”, senza, però, che sia data alcuna ulteriore
indicazione circa i confini giuridici di questa forma di
commercio o sulle disposizioni ad esso applicabili.
Normalmente il commercio elettronico viene distinto, descrittivamente,
in tre grosse partizioni 42:
a) business to business, relativo alle contrattazioni effettuate
tra un'impresa ed altre imprese o organizzazioni
(siano esse partner commerciali, fornitori o istituzioni);
b) business to consumer, che riguarda invece l'insieme
dei rapporti di commercializzazione di beni e servizi tra
imprese e consumatori finali;
c) business Public Administration to citizens, ovvero
la trasposizione in rete di tutti i rapporti, pratiche burocratiche
e servizi riguardanti i rapporti tra la P.A., i cittadini e
le imprese.
Infine, deve essere segnalata anche l’ipotesi di commercio
telematico person to person, che comprende tutte le ipotesi di
scambio di prodotti o servizi effettuate direttamente tra privati
ovvero intermediate da apposite figure professionali (si pensi,
al fenomeno delle aste on line).
41 Sul quale v. il testo e le relative istruzioni ministeriali, sul sito
www.minindustria.it/dgcas
42 Cfr. Minindustria, Linee di politica per il commercio elettronico, cit., p.
8. Il documento accenna anche ad una quarta area, dedicata ai “Rapporti
tra pubbliche amministrazioni e cittadini”, aggiungendo, però,
correttamente, che tale area più che al commercio elettronico, si collega
alla “democrazia elettronica”, ovvero allo snellimento dell’attività
amministrativa mediante l’impiego del documento informatico e della
firma digitale.
Questo ambito, a compasso estremamente allargato, deve
però essere ricondotto entro i confini di un possibile utilizzo
giuridico, poiché non tutte le attività di vendita di prodotti possono
ascriversi al concetto di “commercio”.
Con questo termine deve infatti intendersi – in senso proprio
– quello che costituisce oggetto di una attività di tipo professionale,
dacché il “commerciante” non è il soggetto (sia esso
imprenditore individuale o meno) che compie meri atti di compravendita,
ma colui che li inquadra all’interno dello svolgimento
di una attività abituale e non occasionale finalizzata a
trarne un profitto.
L’art. 4 del citato D.Lgs. n. 114/98 distingue il commercio a
seconda che sia all’ingrosso ovvero al dettaglio.
Per “commercio all’ingrosso” si intende “l’attività svolta da
chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio
e le rivende ad altri commercianti all’ingrosso o al dettaglio, o
ad utilizzatori professionali, o ad altri utilizzatori in grande”.
Con l’espressione “commercio al dettaglio” si intende,
invece, “l’attività svolta da chiunque professionalmente acquista
merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in
sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al
consumatore finale”.
Dalle due definizioni possiamo trarre i seguenti caratteri comuni:
a) lo svolgimento dell’attività di commercio deve essere
professionale ossia non occasionale;
b) il commercio prevede l’acquisto di prodotti (e/o di servizi).
La forma giuridica sarà allora il contratto di compravendita
(art. 1470 ss., c.c.) ovvero, nel caso della
vendita di giornali e riviste, il contratto estimatorio (art.
1556-1558 c.c.), che è stato dalla giurisprudenza assimilato alla vendita, per
le peculiari esigenze della distribuzione di questi
prodotti; c) l’acquisto deve avvenire in nome e per conto
proprio; d) l’acquisto è finalizzato alla successiva
rivendita.
Non essendo presenti questi caratteri, non si può parlare
di commercio (né, tantomeno, di commercio elettronico) nelle
ipotesi, sopra enunciate, di business Public Administration to citizens
e di business person to person.
In definitiva, pertanto, il commercio elettronico può definirsi
come qualunque forma di fornitura di prodotti e/ di servizi tra una
impresa (produttore o grossista) ed un’altra impresa (produttore,
grossista o dettagliante) e tra una impresa (produttore o dettagliante)
ed un consumatore finale (compresa anche la fase di distribuzione),
realizzata, a fine di lucro, mediante strumenti informatici
(c.d. acquisiti off-line) e telematici (c.d. acquisti on line).
Poste queste doverose premesse, prime indicazioni sulla
disciplina applicabile sono offerte dall’art. 18 del D.Lgs. n.
114/98 che, nel compendiare una serie di tipologie di vendite
al dettaglio a distanza e, più esattamente, quelle per corrispondenza
e quelle televisive, si riferisce anche a tutte quelle
effettuate mediante altri sistemi di comunicazione, tra le quali
possiamo, senza dubbio, annoverare le vendite elettroniche.
Le regole previste dalla indicata disposizione sono le seguenti:
a) comunicazione al Comune nel quale l'operatore ha la
residenza, se persona fisica, o la sede legale se società,
con la quale dichiara la sussistenza dei requisiti di cui
all’art. 5 del decreto 43, nonché il settore merceologico di
attività: alimentare, non alimentare, ovvero entrambi;
b) la comunicazione deve essere effettuata – in attesa della
pubblicazione dell’apposita modulistica da parte del Ministero
dell'Industria – tramite il modello COM 1 (pubblicato
sulla G.U., serie generale, n. 94 del 23 aprile 1999,
nonché sul sito www.minindustria.it, www.unioncamere.
it e www.infocamere.it), ovvero tramite comunicazione
che contenga gli stessi elementi;
43 Che il lettore potrà verificare nel fac-simile di comunicazione riportato,
più avanti, nel testo.
c) l’attività può essere esercitata solo decorsi 30 giorni dal
ricevimento della comunicazione da parte del Comune;
d) è ammesso l’invio di prodotti al consumatore solo se
non vi siano vincoli a suo carico, a meno che l’invio non
sia stato da questi sollecitato mediante specifica richiesta
in tal senso;
e) Le operazioni di vendita all’asta realizzate per mezzo
della televisione o di altri sistemi di comunicazione sono
vietate;
f) valgono le regole previste dal D.Lgs 15 gennaio 1992,
n. 50, in materia di contratti negoziati fuori dei locali
commerciali;
g) valgono, inoltre, le intervenute disposizioni dettate dal
D.Lgs. 22 maggio 1999, n. 185, concernente l'attuazione
della direttiva 97/7/CE relativa alla protezione dei
consumatori in materia di contratti a distanza.
s a n z i o n i : Per la violazione dell'art. 18
è prevista una sanzione amministrativa consistente nel pagamento
di una somma da 5 a 30 milioni. La stessa sanzione è prevista
per l'assenza dei requisiti di cui all'art. 5 del decreto.
In caso di particolare gravità o di recidiva, il sindaco può disporre
la sospensione dell’attività fino a 20 giorni.
la comunicazione per l’avvio dell’attività di
commercio elettronico
Rinviando al prosieguo della trattazione l'analisi delle disposizioni
contenute nel D.Lgs. n. 50/92 e nel D.Lgs. n.
185/99, da ultimo citati, riteniamo opportuno soffermare l'attenzione
ancora un momento sulle modalità di comunicazione
al Comune per i soggetti che sono tenuti a farla.
Il modello COM 1, riguarda la comunicazione per l'apertura,
il subingresso, le variazioni (ossia, trasferimento di sede,
ampliamento della superficie e la variazione del settore merceologico), nonché la cessazione dell'attività degli esercizi di
vicinato e, quindi, non specificamente, l'attivazione del commercio
elettronico di cui al sopracitato art. 18. Ne consegue
che dovranno essere compilati solo i riquadri compatibili.
Ovviamente, nonostante il modello riguardi gli esercizi di vicinato,
non valgono i limiti di superficie massima per questi esercizi
(fino a 150 mq ovvero a 250 mq, a seconda che il Comune abbia
popolazione residente fino a 10.000 abitanti o superiore),
considerato che il commercio si svolge su rete telematica.
Non vale, inoltre, a nostro avviso, la richiesta di indicazione
del rispetto delle norme urbanistiche e di destinazione d’uso
commerciale dell’immobile. Questa richiesta se – ma è discusso
– possa essere dovuta per chi esercita il commercio in forma
tradizionale (ossia con un esercizio commerciale fisico) è
del tutto priva di senso nell’ipotesi del locale “virtuale”. Infatti,
non solo il commercio elettronico può essere svolto direttamente
da casa propria (mettiamo il caso che si distribuiscano
servizi e, quindi, senza nemmeno bisogno di un magazzino)
ma, nella normalità, la “sede” fisica del sito non è presso l’impresa
ma presso il Provider che ha reso disponibile lo spazio
web. Sarà quest’ultimo, semmai, a dover disporre di locali idonei
all’uso commerciale.
Le indicazioni necessarie possono essere comunicate al
Comune (e poi al Registro delle imprese della Camera di commercio)
mediante un fac-simile come quello di seguito riportato
(compilando solo le parti di interesse).
FAC-SIMILE della comunicazione di avvio dell’attività di vendita
al dettaglio ai sensi dell’art. 18 del D.lgs. n. 114/9844
Al Comune di______________________
IL SOTTOSCRITTO,Sig./Sig.ra_________________________________________..
nato/a a ___________________ prov. __________, il _______________
residente in _________________________ prov.___________________
via /piazza ___________________________________n. ____________
codice fiscale _______________________________________________,
nella sua qualità di titolare/legale rappresentante della
società ______________________________________________,
Via ________________________________________, n. _____________
iscritta al Registro delle imprese della Camera di Commercio di
___________________________, con il n. _________________________
COMUNICA
ai sensi dell’articolo 18 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 114, l’avvio, decorsi
trenta giorni dalla ricezione da parte del Comune della presente, dell’attività
di vendita in forma digitale di prodotti appartenenti al settore:
❏ALIMENTARE ❏ NON ALIMENTARE
attraverso il sito Internet: _____________________________________
a questo fine dichiara inoltre, sotto la sua responsabilità, consapevole
che le dichiarazioni false, la falsità negli atti e l’uso di atti falsi comportano
l’applicazione delle sanzioni penali previste dall’art. 26 della legge
n. 15/1968, di essere in possesso dei requisiti soggettivi di cui all’art. 5
del D.Lgs. n. 114/1998:
a) di essere in possesso dei requisiti morali previsti dall’art. 5, commi
2 e 4 del D.Lgs. n. 114/199848;
b) che non sussistono nei propri confronti cause di divieto, di decadenza
o di sospensione di cui all’art. 10 della legge 31 maggio
1965, n. 575 e successive modificazioni (cd. legge antimafia 49;
e, PER L’ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ NEL SETTORE ALIMENTARE, di essere in
possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:
c1) ❏ essere iscritto nel Registro Esercenti il Commercio (REC)
presso la CCIAA di ________________ con il n. ______________
per il commercio dei prodotti appartenenti alle tabelle merceologiche
___________________, ovvero ad uno dei seguenti gruppi
merceologici alimentari ❏ aver frequentato con esito positivo il corso professionale
per il commercio del settore alimentare, presso l’Istituto___________________________________________________,
con sede _____________________________________________,
oggetto del corso ______________________________________,
anno di conclusione _________________
❏ aver esercitato in proprio l’attività di vendita di prodotti alimentari
nome dell’impresa _________________________________________
tipo di attività_________________–___________________________
dal __________________ al _________________________________
n. di iscrizione al Registro Imprese____________________________
presso la CCIAA di _________________________________________ ❏ aver prestato la propria opera presso imprese esercenti l’attività
di vendita di prodotti alimentari
nome impresa____________________________________________,
con sede in ______________________________________________;
nome impresa ____________________________________________,
con sede in ______________________________________________
IN QUALITÀ DI
- ❏ dipendente qualificato, regolarmente iscritto all’INPS,
dal________ al_________
- ❏ collaboratore familiare, regolarmente iscritto all’INPS,
dal ________ al_________
Nel caso in cui il titolare/legale rappresentante di società non sia in
possesso dei requisiti professionali questi sono posseduti dal Sig. _____________________________
che ha compilato la dichiarazione di cui all’Allegato B della modulistica
unificata per il commercio al dettaglio in sede fissa.
_________, ___________(Data) ______________________(Firma)
Il modello è stato realizzato per la Guida tenendo conto della normativa applicabile. La comunicazione va presentata al Comune di residenza, nel caso di impresa individuale,
al Comune nella cui circoscrizione è posta la sede sociale, nel caso di società.
46 Cancellare la voce che non interessa.
47 Qualora siano entrambi, barrare le due caselle.
48 Non possono esercitare l’attività commerciale, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione:
a) coloro che sono stati dichiarati falliti;
b) coloro che hanno riportato una condanna, con sentenza passata in giudicato,
per delitto non colposo per il quale è prevista una pena detentiva non inferiore
nel minimo a tre anni, sempre che sia stata applicata in concreto una pena superiore
al minimo edittale;
c) coloro che hanno riportato una condanna a pena detentiva, con sentenza passata
in giudicato, per uno dei delitti di cui al Titolo II e VII del Libro II del codice
penale, ovvero di ricettazione, riciclaggio, emissione di assegni a vuoto, insolvenza
fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, sequestro di persona a scopo
di estorsione, rapina;
d) coloro che hanno riportato due o più condanne a pena detentiva o a pena pecuniaria,
nel quinquennio precedente all’inizio dell’esercizio dell’attività, accertate
con sentenza passata in giudicato, per uno dei delitti previsti dagli artt. 442,
444, 513, 513-bis, 515, 516 e 517 del codice penale, o per delitti di frode nella
preparazione o nel commercio degli alimenti, previsti da leggi speciali;
e) coloro che sono stati sottoposti ad una delle misure di prevenzione di cui alla
legge 27 dicembre 1956, n. 1423 o nei cui confronti sia stata applicata una delle
misure previste dalla legge 31 maggio 1956, n. 575, ovvero siano stati dichiarati
delinquenti abituali, professionali o per tendenza.
Il divieto di esercizio dell’attività commerciale permane per la durata di cinque anni
a decorrere dal giorno in cui la pena è stata scontata o si sia in altro modo estinta,
ovvero, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, dal
giorno del passaggio in giudicato della sentenza.
49 In caso di società, la dichiarazione va resa da tutte le persone di cui all’art. 2 del
D.P.R. n. 252/1998 utilizzando l’Allegato A della modulistica unificata per il commercio
al dettaglio in sede fissa (c.d. modelli COM) che può essere richiesta al Comune,
alla Camera di Commercio ovvero scaricata dal sito Internet del Ministero
dell’Industria (www.minindustria.it) e dell’Unioncamere (www.unioncamere.it). Per
maggiore comodità si riporta l’art. 2, comma 3, del citato D.P.R. n. 252/98: “3.
Quando si tratta di associazioni, imprese, società e consorzi, la documentazione
prevista dal presente regolamento deve riferirsi, oltre che all’interessato:
a) (omissis)
b) per le società di capitali anche consortili ai sensi dell’articolo 2615-ter del codice
civile, per le società cooperative, di consorzi cooperativi, per i consorzi di cui
al libro V, titolo X, capo II, sezione II, del codice civile, al legale rappresentante
e agli eventuali altri componenti l’organo di amministrazione, nonché a ciascuno
dei consorziati che nei consorzi e nelle società consortili detenga una partecipazione
superiore al 10 per cento, ed ai soci o consorziati per conto dei quali
le società consortili o i consorzi operino in modo esclusivo nei confronti della
pubblica amministrazione;
c) per i consorzi di cui all’articolo 2602 del codice civile, a chi ne ha la rappresentanza
e agli imprenditori o società consorziate;
d) per le società in nome collettivo, a tutti i soci;
e) per le società in accomandita semplice, ai soci accomandatari;
f) per le società di cui all’articolo 2506 del codice civile, a coloro che le rappresentano
stabilmente nel territorio dello Stato”.
50 Si tratta dei seguenti tre gruppi merceologici: alimentari (I, VI e VII); carni (II, III,
IV, V) e alimentari e non (VIII).
51 Barrare solo la voce che interessa.
Si faceva riferimento al fatto che non tutti gli operatori sono
tenuti a presentare al Comune la comunicazione di cui all'art.
18 del D.Lgs. n. 114/98. Detto decreto non si applica a
tutti i soggetti che svolgono attività commerciale (e dunque
aspirano a svolgerla in Rete), sono infatti esclusi, tra gli altri 52:
chi venda o esponga per la vendita le proprie opere
d’arte, nonché quelle dell’ingegno a carattere creativo,
comprese le proprie pubblicazioni di natura scientifica
od informativa, realizzate anche mediante supporto
informatico;
gli enti pubblici (e le persone giuridiche private partecipate
dallo Stato o enti territoriali) che vendano pubblicazioni
o altro materiale informativo, anche su supporto
informatico, concernenti l’oggetto della loro attività;
gli industriali;
gli artigiani;
i produttori agricoli.
Ovviamente, se non si applica l’intero decreto, non si applica
neppure una sua parte, ossia il già menzionato art. 18.
Inoltre tale articolo si applica unicamente ai soggetti che
esercitano commercio al dettaglio, come risulta dal suo inserimento
nel Titolo VI del decreto, dedicato alle forme speciali di
vendita al dettaglio, donde si esclude la sua applicabilità alle
forme di vendita all’ingrosso effettuate in Rete.
Ne consegue che, per poter effettuare tali vendite su Internet,
i grossisti sono tenuti, unicamente, al possesso dei requibuy
it
52 V. l’art. 4, comma 2, del D.Lgs n. 114/98 per l'elencazione. Tale elenco
non è però completo. Mancano, per es., la vendita di articoli di ottica
(R.D. n. 1334/28 e D.M. 23 luglio 1998); di articoli sanitari e specialità
medicinali (R.D. n. 1265/34 e legge n. 178/91); di prodotti di erboristeria
(legge n. 99/31), di fitofarmaci (DPR n. 1255/68), di prodotti
della panificazione da parte del produttore (legge n. 1102/56), di
oggetti preziosi ovvero antichi, usati, oggetti di antiquariato e opere
d’arte (R.D. n. 773/31); la somministrazione di alimenti e bevande,
compresa a anche la vendita per asporto (legge n. 287/91).
siti soggettivi previsti dall’art. 5 del decreto e, in particolare, di
quelli professionali se il commercio riguardi prodotti appartenenti
al settore merceologico alimentare.
La ricostruzione che precede – già contenuta nella precedente
edizione di questa Guida – è stata integralmente recepite
dalla recente circolare del Ministero dell’Industria 1° giugno
2000, n. 3487/C 53.
Rispetto al problema della vendita all’ingrosso su Internet,
la menzionata circolare, osservato che l’art. 26, comma 2 del D.Lgs. n. 114/98 proibisce l’esercizio congiunto del commercio
all’ingrosso e al dettaglio nello stesso locale (si badi, però, che
non è prevista alcuna sanzione per la violazione del divieto), risolve
la questione della promiscuità richiedendo all’operatore
che voglia svolgere sia l’attività di ingrosso che di dettaglio on
line tramite un unico sito di “(…) destinare aree del sito distinte
per l’attività all’ingrosso e al dettaglio: in tal modo, infatti, il potenziale
acquirente è messo in condizione di individuare chiaramente
le zone del sito destinate alle due tipologie di attività”.
Seguendo questo suggerimento, il dettagliante/grossista
potrà agevolmente distinguere le modalità di contrattazione
con i propri clienti, poste le diverse regole di salvaguardia disposte
nei confronti dei consumatori e non anche nei soggetti
compratori che non rivestano questo status.
Infine, due parole devono essere dedicate alla questione
del divieto delle aste on line che la circolare non affronta. Tale
divieto, in relazione ai limiti di applicazione dell’art. 18, appena
evidenziati, si applicherà solo ai dettaglianti on line, lasciando
fuori non solo i grossisti, ma anche i produttori e tutti i soggetti
esclusi dall’ambito di applicazione dell’intero decreto Bersani.
Anche i dettaglianti, peraltro, qualora abbiano sede (e sito)
fuori dal territorio nazionale, non sono colpiti dal divieto.
53 La circolare è pubblicata all’indirizzo www.minindustria.it/dgcas/commercio/
indice.htm.
La contrattazione su Internet secondo le
regole del Codice civile
Dopo aver sommariamente trattato dei presupposti per l’inizio
dell’attività, vediamo ora le principali regole applicabili,
secondo il nostro codice civile, ai contratti conclusi attraverso
Internet, evidenziando alcuni momento nevralgici
I n d i v i d u a z i o n e d e l c o n t r a e n t e
L’unico sistema per poter individuare con certezza il contraente
in un contratto concluso in rete si sostanzia nell’impiego
della firma digitale che permette - come si è già detto - il
preciso “collegamento giuridico” con la titolarità della chiave
di cifratura impiegata.
Allo stato attuale della normativa non è invece possibile risalire
dal sito web alla titolarità del soggetto che se ne avvale.
Si raccomanda, pertanto, all’impresa di indicare chiaramente
(e ciò discende anche dall’applicazione del D.Lgs. n.
50/92 e n. 185/99) il soggetto giuridico che propone e conclude
il contratto proposto.
V i z i d e l l a v o l o n t à
Ai contratti telematici si applicano le regole del codice civile
in relazione ai vizi della volontà.
Così, per es., il contratto sarà annullabile per errore quando
questo sia essenziale e riconoscibile da parte dell’altro contraente
(il caso tipico è la digitazione di una somma che palesi
al venditore la sua erroneità).
Anche le regole sul dolo sono parimenti applicabili, trattandosi
del caso in cui – senza gli artifizi o raggiri – il contraente
non avrebbe stipulato il contratto.
Alla contrattazione telematica si applicano inoltre le disposizioni
penali sulla criminalità informatica (di cui alla legge 23
dicembre 1993, n. 547).
Te m p o d i c o n c l u s i o n e d e l c o n t r a t t o
Ai sensi dell’art. 1326 cod. civ., il contratto si conclude nel
momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione
dell’altra parte.
Proposta ed accettazione producono i loro effetti dal momento
in cui vengono a conoscenza del relativo destinatario
(art. 1334 cod. civ.). Il nostro ordinamento prevede poi una
presunzione semplice di conoscenza (e, dunque, di efficacia)
dell’accettazione che avviene, giusta l’art. 1335 cod. civ., nel
momento in cui giunge all’indirizzo del destinatario, a meno
che questi non provi di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità
di prenderne conoscenza.
Queste regole trovano applicazione anche nell’ipotesi di
contrattazione su Internet.
Nel caso di contratto concluso per mezzo della posta elettronica,
questo si conclude quando l’accettazione giunge all’indirizzo
del preponente. L’indirizzo del proponente è l’indirizzo
elettronico (cioè quello di posta elettronica) dichiarato o
eletto dal destinatario.
In questo senso, la casella postale, resa disponibile da un
provider costituisce l’indirizzo elettronico cui fare riferimento per
l’applicazione della presunzione di cui all’art. 1335 cod. civ.
Il destinatario di una proposta contrattuale – ma, più in generale,
chiunque abbia la disponibilità di un indirizzo di posta
elettronica – è pertanto tenuto a controllare la posta in arrivo, poiché,
mentre il mittente dovrà semplicemente provare di avere inviato
la comunicazione all’indirizzo del provider, il destinatario,
per vincere la presunzione di conoscibilità, dovrà provare di essersi
trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di conoscerla.
La conoscibilità si consegue dunque con la trasmissione del
messaggio al provider senza la necessità che il cliente provveda
a “scaricare” sul suo computer detta comunicazione.
I contratti, oltre che tramite il meccanismo della posta elettronica,
possono essere conclusi direttamente dai computers,
per es., nelle ipotesi di compilazione di appositi moduli di acquisto
presenti in molti siti (soprattutto negli shopping mall). In questi
casi il cliente provvede a compilare il modello proposto dal venditore, inserendo il codice dei beni, la quantità, il luogo di consegna,
i suoi dati identificativi, e le modalità di pagamento.
La conclusione del contratto avverrà nel momento in cui
il destinatario avrà comunicato al mittente la conclusione del
medesimo.
Revoca della proposta o dell’accettazione
d i u n c o n t r a t t o
L’art. 1328 cod. civ. prevede la revocabilità della proposta
contrattuale “sino a che il contratto non sia concluso”, mentre
l’accettazione può essere revocata solo se detta revoca giunge
“a conoscenza del proponente prima dell’accettazione”.
La proposta inviata per e-mail potrà essere revocata sino a
che il destinatario non abbia inviato l’accettazione al provider
del proponente. La data e l’ora della comunicazione saranno,
al riguardo, fondamentali per stabilire se il contratto si sia o
meno concluso prima della revoca.
Si consideri, comunque, che è piuttosto difficile la revoca
dell’accettazione poiché, mentre la proposta può essere facilmente
revocata dal soggetto che agisce in rete “sino a che il
contratto non sia concluso” (art. 1328 cod. civ.), l’acquirente, per
poter revocare l’accettazione, deve fare in modo che la revoca
giunga “a conoscenza del proponente prima dell’accettazione”.
L u o g o d i c o n c l u s i o n e
Stabilire il luogo di conclusione di un contratto informatico
è di estrema rilevanza per individuare quale sia la legge da applicare
al rapporto sorto tra i contraenti, tenuto conto che, normalmente,
si tratta di rapporti che sorgono tra soggetti che si
trovano in luoghi diversi.
Nel silenzio della legge (l’art. 1326 cod. civ. si riferisce solo
al momento di conclusione del contratto) la dottrina e la giurisprudenza
più accreditate ritengono che un contratto si conclude
nel luogo in cui si trova il proponente al momento in cui
ha notizia dell’accettazione.
Applicando questo criterio ai contratti conclusi per e-mail,
occorrerà verificare quale sia il luogo dal quale il soggetto
“scarica” dal provider la comunicazione contenente l’accettazione
della sua proposta contrattuale. Secondo una opinione,
qualora il luogo non possa essere identificato (per es. nel caso
di accesso alla rete da un treno in corsa), il contratto sarà concluso
all’indirizzo elettronico, cioè presso la sede legale dove
l’ìmpresa ha la propria sede.
In attesa che provengano indicazioni legislative sul punto,
pare opportuno consigliare alle imprese di indicare espressamente,
anche ai fini della legge applicabile, questa soluzione.
9.5_la tutela dei consumatori.
a) Il D.Lgs 50/1992 sulla vendita fuori dei locali commerciali
Ai contratti stipulati con strumenti informatici o telematici
si applicano le disposizioni previste dal D.Lgs n. 50/1992, in
materia di contratti negoziati fuori dei locali commerciali.
Il D.Lgs n. 50/1992 ha introdotto il principio base del recesso
del consumatore ogniqualvolta il contratto sia stato negoziato
fuori dai locali commerciali e, quindi, senza che il consumatore
abbia (presuntivamente) potuto avere il giusto tempo
per ponderare la decisione di concludere il contratto.
È importante notare che l’art. 9, comma 1, di detto decreto,
trattando delle altre forme speciali di vendita (offerta televisiva
o altri mezzi audiovisivi), estende la portata della tutela
anche ai “contratti conclusi mediante l’uso di strumenti informatici
e telematici”. Fondamentale per l’applicazione del decreto è stabilire quando il
compratore sia un “consumatore”. Secondo la definizione
offerta dall’art. 2, comma 1, lett. a), del decreto è tale
la “persona fisica che (...) agisce per scopi che possono
considerasi estranei alla propria attività professionale”. È
pertanto necessario, ai fini della tutela, che il compratore
dichiari, al momento dell’acquisto, il proprio status di
“consumatore”, affermando l’estraneità del bene acquistato
alla propria attività professionale o d’impresa.
Deve però osservarsi che l’art. 11, comma 2, del D.P.R. n.
513/97, stabilisce che ai contratti stipulati con strumenti informatici
o per via telematica mediante l’uso della firma digitale
“si applicano le disposizioni previste dal D.Lgs. 15 gennaio
1992, n. 50” determinando il dubbio - non risolvibile in questa
sede - che queste regole trovino applicazione anche ai rapporti
tra imprese, ossia senza la presenza necessaria di un acquirente
che rivesta lo status di consumatore.
Vediamo ora quali sono le disposizioni più rilevanti della disciplina
contenuta nel D.Lgs n. 50/1992.
O b b l i g o d i fo r n i r e l ’ i n fo r m a z i o n e s u l d i r i t t o
d i r e c e s s o p e r i s c r i t t o
Secondo quanto prevede l’art. 5, l’operatore commerciale
deve informare il consumatore, per iscritto:
a) dell’esistenza a suo vantaggio del diritto di recesso;
b) dei termini, modalità ed altre condizioni per il suo esercizio;
Inoltre:
a) le indicazioni da fornire obbligatoriamente devono essere
riportate in caratteri tipografici non inferiori a quelli
impiegati per le altre informazioni;
b) l’operatore deve trasmettere al consumatore un documento
contenente le informazioni sul recesso, utilizzando
la casella di posta elettronica del consumatore,
ovvero predisponendo la stampa in automatico di dette
informazioni tramite la stampante di quest’ultimo.
Nel caso di contrattazione via Internet, il venditore potrà fornire
queste indicazioni nella pagina ove è presente la proposta di
contratto o, al più tardi, nel momento immediatamente precedente
alla possibilità per l’interessato di completare l’ordine, anche
prevedendo dei “rinvii” ad altre indicazioni previste in altre
pagine di livello inferiore, secondo la caratteristica tipica dei testi
su Internet, realizzati in formato html (cosiddetti testi linkati).
Indicazione del soggetto nei confronti del quale si esercita il recesso
L’art. 5, comma 1, lett. b), del decreto impone all’operatore
commerciale di indicare al consumatore il nominativo e l’indirizzo
del soggetto (la denominazione e la sede legale nel caso di società)
nei confronti del quale si può comunicare la decisione di
avvalersi del diritto di recesso, nonché il soggetto (o la società),
se diverso dal precedente, al quale deve essere restituito il bene.
Nel caso di contrattazione su Internet, l’indicazione dell’indirizzo
elettronico si reputa sufficiente per la comunicazione del
recesso (e anche per la restituzione dei prodotti, se immateriali).
Modalità di esercizio del diritto di recesso
L’art. 6, del decreto prevede i termini, a decorrere dal ricevimento
della merce, entro i quali può essere legittimamente
esercitato il diritto di recesso. La comunicazione può avvenire
in varie forme, raccomandata con avviso di ricevimento, telegramma,
telex, telefax (in questi ultimi casi, deve seguire una
conferma mediante raccomandata con avviso di ricevimento
entro le successive 48 ore) nonché, avvalendosi della firma digitale,
anche con un documento informatico inviato, per e-mail
all’indirizzo elettronico indicato dall’operatore.
In quest’ultimo caso non si ritiene necessaria alcuna altra
formalità (per es. una successiva conferma), stante l’equiparazione
del documento informatico al documento scritto. Servirà,
al contrario una conferma con altro mezzo, qualora per email
si invii esclusivamente una comunicazione informatica
priva di sottoscrizione digitale.
Effetti conseguenti l’esercizio del diritto di recesso
Con la comunicazione del recesso, secondo le formalità
previste nel decreto, il consumatore è sciolto dal vincolo assunto
con il venditore.
Sono inoltre dettate le seguenti regole:
a) se è avvenuta la consegna del bene, il consumatore deve restituire la merce entro i termini previsti. In tal caso
fa fede l’accettazione dell’ufficio postale o dello spedizioniere.
Le spese sono a carico del consumatore;
b) il professionista, entro trenta giorni dal ricevimento della
comunicazione di recesso, deve rimborsare al consumatore
le somme già eventualmente corrisposte, ivi
comprese quelle imputate a spese accessorie se non
escluse nella nota d’ordine o nella nota informativa, e
quelle versate a titolo di caparra. Il rispetto dei termini
per il rimborso è determinato dalla data di spedizione o
riaccredito. Se il pagamento è stato eseguito con effetti
cambiari, ove non ancora presentati all’incasso, il
rimborso si effettua tramite loro restituzione;
c) sono nulle le clausole contrattuali volte a limitare il rimborso
nei confronti del consumatore a seguito dell’esercizio
del diritto di recesso. La previsione vale ad
escludere forme onerose di recesso, nelle quali l’onere
possa essere rappresentato dalla perdita di somme già
versate a titolo di corrispettivo.
Scelta del foro competente
L’art. 12 del decreto individua la competenza territoriale, in
merito alle controversie ai contratti fuori dei locali commerciali,
presso il giudice civile “del luogo di residenza o di domicilio del
consumatore, se ubicati all’interno dello Stato”.
Questa previsione, nei contratti stipulati su Internet, sconta
tutta l’inadeguatezza di incardinare ad un domicilio “tradizionale”
quello che, dal punto di vista informatico, potrebbe
essere in qualunque parte del globo. Ovviamente, non ha
molto senso riferirsi al computer come luogo di residenza,
ben potendo questo essere spostato a piacimento (si pensi,
poi, ai computer portatili), né all’indirizzo elettronico attivato
presso un provider che rileva unicamente per la trasmissione/
ricezione legale di comunicazioni. Di conseguenza, per
stabilire la competenza territoriale in caso di controversie sarà
necessario fare riferimento al domicilio e alla residenza reali
del consumatore.
Esclusioni
Dall’applicazione delle regole del D.Lgs. n. 50/92 sono esclusi:
a) i contratti assicurativi e quelli relativi a valori mobiliari,
disciplinati da legislazione speciale;
b) i contratti aventi ad oggetto beni immobili, ivi comprendendosi
quelli relativi alla costruzione, alla vendita, alla
manutenzione e alla riparazione;
c) i contratti il cui valore, a prescindere dal bene o servizio
contrattato, non è superiore a lire cinquantamila, comprensivo
di oneri fiscali e al netto di eventuali spese accessorie
che risultino specificamente individuate nella
nota d’ordine o nel catalogo, ove sia indicata la relativa
causale (possono essere, per esempio, spese di trasporto,
spedizione, imballaggio, assicurazione ecc.). La
disciplina torna ad applicarsi se tra le stesse parti vi sono
state diverse stipulazioni il cui valore complessivo
eccede la somma di lire cinquantamila.
S a n z i o n i
Per assicurare il rispetto delle disposizioni contenute nel decreto,
gli inadempimenti del professionista relativi all’obbligo di
informazione e alle restituzioni conseguenti l’esercizio del diritto
di recesso sono puniti con la sanzione amministrativa pecuniaria
che può arrivare a dieci milioni e può essere raddoppiata in casi
di particolare gravità o recidiva. Il procedimento di irrogazione
segue le previsioni della legge 24 novembre 1981, n. 689.
b) Il D.Lgs 185/1999 sulla protezione dei consumatori in
materia di contratti a distanza_
Maggiormente incentrata sugli obblighi di informazione sul
reale contenuto del contratto, quale idoneo mezzo di tutela preventiva
del consumatore, è la recente emanazione del D.Lgs.
196
maggio 1999, n. 185, con il quale è stata recepita la direttiva comunitaria
n. 97/4/CE del 20 maggio 1997, riguardante la protezione
dei consumatori in materia di contratti a distanza.
Il decreto qualifica come “contratto a distanza”: il contratto,
stipulato tra un fornitore (la cui definizione è identica a
quella del “professionista” di cui è parola nelle altre direttive riguardanti
i consumatori) e un consumatore, nell’ambito di un
sistema di vendita o di prestazione di servizi a distanza organizzato
dal fornitore di beni o servizi, interamente negoziato
con mezzi di comunicazione a distanza.
Per “tecnica di comunicazione a distanza”, si intende qualunque
mezzo che, senza la presenza fisica e simultanea del fornitore e del
consumatore, possa impiegarsi per la conclusione del contratto.
Informazioni da comunicare al consumatore
In questo tipo di contrattazioni, il consumatore deve ricevere,
prima della conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 4 del decreto,
le seguenti informazioni: identità e indirizzo del fornitore;
caratteristiche essenziali del bene o del servizio oggetto
del contratto;
il prezzo (comprensivo di tutte le tasse, imposte, etc.);
le modalità di pagamento, della consegna e di ogni altra
forma di esecuzione del contratto;
le spese di consegna;
la durata della validità dell’offerta e del prezzo;
la durata minima del contratto nel caso in cui questo riguardi
la fornitura di prodotti o di servizi in modo periodico
o continuativo;
l’esistenza del diritto di recesso o la sua esclusione secondo
quanto previsto dall’art. 5, comma 3;
le modalità e tempi di restituzione o di ritiro del bene in
caso dell’esercizio del diritto di recesso;
il costo relativo all’impiego della tecnica di comunicazione
impiegata, se la tariffa è calcolata su una base diversa
da quella ordinaria.
Dette informazioni, collegate in modo chiaro all’intenzione
di proporre un contratto, devono essere fornite, secondo i principi
di lealtà commerciale, con il mezzo più idoneo secondo la
tecnica di comunicazione impiegata dal fornitore. In particolare,
nel caso di comunicazione telefonica, l’identità del fornitore e lo
scopo commerciale del contatto sono condizione primaria – a
pena di nullità – per l’avvio delle eventuali trattative.
Informazioni aggiuntive e conferma per iscritto
Inoltre, delle informazioni, alle quali si è appena fatto cenno,
il consumatore deve ricevere conferma per iscritto, o, a
sua scelta, su altro supporto duraturo a sua disposizione, in
tempo utile per potersi avvalere dei diritti.
Oltre a queste indicazioni, il consumatore deve ricevere -
in tempo utile, ossia prima o al momento di esecuzione del
contratto - anche le seguenti informazioni:
a) le condizioni e modalità del recesso;
b) l’indirizzo geografico delle sede del fornitore presso il
quale poter presentare eventuali reclami;
c) le informazioni sui servizi di assistenza e sulle garanzie
commerciali esistenti;
d) le condizioni del recesso dal contratto nel caso in cui
non sia stata previsto un termine finale ovvero questo
sia superiore ad un anno.
Diritto di recesso e suo esercizio
Il consumatore nei contratti a distanza ha 10 giorni (lavorativi)
di tempo per esercitare il diritto di recesso. Non è tenuto a
fornire alcuna spiegazione al fornitore né può essere soggetto
ad alcuna penalità.
Il termine indicato inizia a decorrere:
per i beni: dal giorno del ricevimento degli stessi da parte
del consumatore se sono state fornite le informazioni
dovute ai sensi dell’art. 4. Se non sono state fornite le
informazioni, il termine inizia a decorrere dal giorno in
cui tale obbligo è stato soddisfatto (e ciò deve avvenire
non oltre i tre mesi dalla conclusione del contratto);
per i servizi: dal giorno della conclusione del contratto se
sono state fornite le informazioni dovute ai sensi dell’art.
4. Se non sono state fornite le informazioni, il termine
inizia a decorrere dal giorno in cui tale obbligo è
stato soddisfatto (e ciò deve avvenire non oltre i tre
mesi dalla conclusione del contratto).
Qualora il fornitore non abbia adempiuto agli obblighi di informazione,
il diritto di recesso può essere esercitato nei tre mesi
successivi al ricevimento dei beni, ovvero dal giorno di conclusione
del contratto se questo riguarda una prestazione di servizi.
Quanto alle modalità di esercizio, il recesso si esercita con
l’invio di una comunicazione scritta all’indirizzo geografico del
fornitore mediante raccomandata con avviso di ricevimento,
ovvero mediante telex o fax, seguito, nelle 48 ore successive,
da una raccomandata di conferma. Questa regola – analoga a
quella prevista dal D.Lgs n. 50/92 – non rende possibile l’invio
di una e-mail (neanche se questa sia firmata con firma digitale),
poiché l’“indirizzo geografico” del fornitore non è assimilato
a quello informatico.
Nel caso l’acquisto riguardi un bene e questo sia stato
consegnato, il consumatore è tenuto alla restituzione in un
termine (stabilito dal fornitore) non inferiore a 10 giorni lavorativi
decorrenti dal ricevimento del bene. Il consumatore può
adempiere all’obbligo di restituzione anche ponendo a disposizione
del fornitore (o di chi per lui) il bene secondo quanto
previsto nel contratto.
Non debbono essere previste spese per il consumatore,
ad eccezione di quelle dirette di restituzione del bene, se previsto
espressamente dal contratto. Il fornitore è invece tenuto
al rimborso delle somme versate dal consumatore. Tale rimborso deve avvenire - gratuitamente - nel minor tempo possibile
e, comunque, non oltre 30 giorni dalla data in cui il fornitore è
venuto a conoscenza dell’esercizio del recesso.
Esclusioni dal diritto di recesso
Il diritto di recesso è escluso – salvo diverso accordo tra le
parti – nel caso:
1) di fornitura di servizi la cui esecuzione – d’accordo il
consumatore – sia iniziata prima dei dieci giorni previsti
per l’esercizio del diritto di recesso54;
2) di fornitura di beni o servizi il cui prezzo è legato a fluttuazioni
dei tassi del mercato finanziario non controllabili
dal fornitore;
3) di fornitura di beni confezionati su misura o chiaramente
personalizzati o che, per loro natura, non possono
essere rispediti o rischiano di deteriorarsi o alterarsi
rapidamente;
4) la fornitura di prodotti audiovisivi o di software sigillati,
aperti dal consumatore;
5) di fornitura di giornali, periodici e riviste;
6) di servizi di scommesse e lotterie.
Esecuzione del contratto
Il decreto disciplina anche i termini per l’esecuzione del
contratto da parte del fornitore che sono fissati in trenta giorni
a decorrere dal giorno successivo a quello di trasmissione dell’ordinazione
da parte del consumatore. È ammesso diverso
accordo tra le parti.
In caso di mancata esecuzione, per indisponibilità del bene
richiesto, il fornitore deve informare il consumatore ai sensi
54 L'incongruenza segnalata nella precedente edizione della Guida (il testo
legislativo originario parlava “della scadenza del termine di sette
giorni previsto dal comma 1”) è stata corretta con avviso di rettifica
pubblicato in G.U. n. 230 del 30 settembre 1999.
dell’art. 4 nonché procedere al rimborso. Non è ammesso da
parte del fornitore – salvo assenso del consumatore dichiarato
prima o al momento della conclusione del contratto – adempiere
al contratto eseguendo una fornitura diversa da quella
pattuita, anche se il valore e la qualità dei beni siano equivalenti
o superiori.
Esclusioni rispetto all’ applicazione del decreto
Il decreto non trova applicazione qualora si tratti di contratti:
a) relativi a servizi finanziari;
b) conclusi tramite distributori automatici;
c) conclusi con gli operatori delle telecomunicazioni impiegando
telefoni pubblici;
d) conclusi per la costruzione, la vendita o altri diritti relativi
a beni immobili, ad esclusione della locazione;
e) conclusi in occasione di vendite all’asta.
Ai sensi dell’art. 7 del decreto, non trovano applicazione le
disposizioni relative alle informazioni dovute al consumatore
(art. 3 e 4), al diritto di recesso (art. 5) e al termine di esecuzione
del contratto (art. 6, comma 1), per i contratti relativi:
a) alla fornitura di generi alimentari, di bevande o altri beni
d’uso domestico forniti al domicilio del consumatore
(ovvero al suo luogo di residenza o di lavoro), da distributori
che effettuano giri frequenti e regolari;
b) alla fornitura di servizi relativi all’alloggio, ai trasporti, alla
ristorazione, al tempo libero, quando, all’atto della conclusione
del contratto, il fornitore si impegna a fornire tali
prestazioni ad una data o ad un periodo prestabilito.
D i v i e t i
Il decreto prevede quanto ai divieti:
È vietata la fornitura di beni o servizi non richiesti. La fornitura
non previamente ordinata non obbliga il consumatore ad
alcuna prestazione corrispettiva né ad alcuna dichiarazione
in tal senso. La mancata risposta non equivale ad assenso.
I diritti garantiti al consumatore sono irrinunciabili ed è
nulla ogni pattuizione in contrasto con quanto previsto
dal decreto.
Qualora le parti abbiano convenuto di regolamentare il
contratto sulla base di una legge diversa da quella italiana,
il consumatore non può essere comunque privato
della tutela prevista dal decreto.
Disposizioni processuali
La competenza territoriale, in ordine alle controversie civili, è
fissata inderogabilmente presso il giudice del luogo di residenza o
di domicilio del consumatore, se ubicate nel territorio dello Stato.
Le azioni per la tutela degli interessi collettivi possono essere
proposte anche dalle associazioni dei consumatori, secondo
quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 281/98.
S a n z i o n i
Fatta salva l’applicazione della legge penale, il fornitore è punito
con una sanzione amministrativa da 1 a 10 milioni qualora:
• contravviene agli artt. 3 (informazioni al consumatore), 4
(Conferma scritta delle informazioni), 6 (Esecuzione del
contratto), 9 (fornitura non richiesta) e 10 (Limiti all’impiego
di talune tecniche di comunicazione a distanza);
• ostacola l’esercizio del diritto di recesso, ex art. 5;
• contravviene all’obbligo di rimborsare al consumatore le
somme eventualmente pagate.
Nei casi di particolare gravità o di recidiva i limiti suddetti
delle sanzioni sono raddoppiati.
Per le regole di applicazione delle sanzioni si seguono le norme
previste dalla citata legge n. 689/81.
c) le clausole vessatorie nei contratti dei consumatori_
Deve infine ricordarsi che ai contratti stipulati da un “consumatore”
ed un “professionista” si applicano anche le regole
previste negli artt. da 1469-bis a 1469-sexies cod. civ., sulle
clausole vessatorie nei contratti, quali introdotti dalla legge 6
febbraio 1996, n. 52 e, da ultimo, modificati dall’art. 25 della
legge 21 dicembre 1999, n. 526.
Con detta legge il legislatore nazionale – in attuazione
della direttiva 5 aprile 1993, n. 93/13/CEE, concernente le
clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori – ha
indicato un quadro di riferimento generale per questo nuovo
tipo di contratti.
Le disposizioni, che trovano applicazione anche ai contratti
stipulati con l’uso di moduli e formulari, fanno riferimento a tutti
i contratti conclusi “tra il consumatore ed il professionista”
indipendentemente dalla circostanza che abbiano per oggetto
“la cessione di beni o la prestazione di servizi”, frase, quest’ultima,
eliminata dal testo dell’art. 1469-bis, comma 1.
Per “consumatore” s’intende la “persona fisica che agisce
per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale
eventualmente svolta”, mentre per “professionista”, la “persona,
fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della
sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto”
di cui sopra (art. 1469-bis, comma
2).
Clausole vessatorie e giudizio di vessatorietà
Il primo comma dell’art. 1469-bis qualifica come vessatorie
le clausole contenute nei contratti conclusi tra consumatori
e professionisti che, malgrado la (a dispetto della) buona fede
determinano uno squilibrio significativo dei diritti dei diritti e
degli obblighi derivanti dall’accordo.
Circa i contratti interessati, il legislatore ha utilizzato una
formula molto ampia, in grado di ricomprendere tutte le cessioni
di beni e le prestazioni di servizi.
La valutazione della vessatorietà, che deve essere effettuata
alla luce dell’art. 1469-ter, non può prescindere dalla
contestuale valutazione della buona fede delle parti. In quella
sede si dovrà quindi avere riguardo allo squilibrio, alla buona
fede e agli altri elementi colà menzionati.
L’art. 1469-bis al terzo comma offre un elenco di clausole
che si presumono vessatorie, cioè che determinano un significativo
squilibrio di diritti e di obblighi, fino a prova contraria.
Nella disciplina dell’art. 1469-ter sono indicate le regole
per l’accertamento della vessatorietà delle clausole. Il comma
1 indica gli elementi alla luce dei quali l’interprete deve accertare
lo squilibrio.
Essi sono la natura del bene o del servizio dedotti in contratto
come oggetto, con riferimento alle circostanze esistenti
la momento della conclusione, alle altre clausole del contratto
medesimo o di altro collegato o da cui dipende.
All’insegna di un generale obbligo di trasparenza, l’art.
1469-quater, prevede che, nel caso di contratti di cui tutte le
clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per
iscritto, queste debbano sempre essere redatte in modo chiaro
e comprensibile.
Un interrogativo che potrebbe sorgere rispetto a questa prescrizione
è quale debba essere il parametro alla luce del quale
giudicare la comprensibilità e la chiarezza. La risposta migliore è
nel senso che dovrà farsi riferimento al consumatore di media
diligenza, ma con specifico collegamento al caso concreto.
Il comma 4 dell’art. 1469-ter stabilisce l’esclusione della
vessatorietà per quelle clausole che siano riproduttive di disposizioni
di legge o che riproducono disposizioni o attuano
princìpi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano
parti contraenti tutti gli Stati membri dell’Unione europea o
l’Unione europea.
Il comma 5 dell’art. 1469-ter fornisce delle indicazioni relative
all’onere della prova con la dichiarazione, in via di principio,
della non vessatorietà di una clausola che è stata oggetto
di trattativa individuale. Su di essa, in particolare, si appunta
l’onere probatorio del professionista quando si avvalga di contratti
standard conclusi mediante la sottoscrizione di moduli e
formulari, fattispecie che richiama il contenuto precettivo dell’art.
1341 cod. civ.
Le clausole vessatorie sono considerate inefficaci, restando
in piedi il contratto nelle parti rimaste valide.
Controlli
Quanto ai possibili strumenti di controllo, l’art. 1469- sexies, attribuisce alle associazioni dei consumatori e dei professionisti
nonché alle Camere di commercio, la possibilità:
a) di convenire in giudizio il professionista (o la sua associazione)
che si avvale di condizioni generali di contratto
sospette di contenere clausole abusive;
b) proporre azione per chiedere un provvedimento inibitorio,
anche in via d’urgenza, in merito all’uso di dette
condizioni generali.
L’inibitoria può essere richiesta al giudice competente ex
art. 700 cod. proc. civ.
Clausole vessatorie e contratti in rete
Le regole, passate in rapida rassegna, valgono anche per
la contrattazione in rete, dove è normale che l’impresa venditrice
predisponga dei modelli (quindi delle condizioni generali)
ai quali il consumatore deve aderire.
È però possibile - anche con la contrattazione per via telematica
- dimostrare che le clausole vessatorie siano state oggetto di
specifica negoziazione, elidendo l’automatica valutazione negativa
contenuta nell’elencazione di cui all’art. 1469-bis, comma 3.
Più difficile appare invece la possibilità di apporre in uno
stesso documento informatico una doppia sottoscrizione nelle
ipotesi nelle quali lo richiede il nostro ordinamento.
Si tratta della fattispecie prevista dall’art. 1341, comma 2, c.c., che trova
applicazione in tutti i casi nei quali il contratto è
predisposto unilateralmente (quindi anche se entrambi i
contraenti sono imprese) in relazione ad alcune clausole
identificate come vessatorie. Per completezza, di seguito, si riporta il testo dell'art. 1341 cod. civ.
(Condizioni generali di contratto):
“Le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti
sono efficaci nei confronti dell'altro, se al momento della (segue »»)
La tutela delle imprese e del mercato
a) Il rispetto delle regole di concorrenza su Internet_
Premessa
Anche nell'ambito del commercio su Internet, le imprese
sono tenute al rispetto delle regole di concorrenza, segnatamente
di quelle contenute negli artt. 2595 ss. cod. civ. e, in
particolare, per quanto attiene agli atti di concorrenza sleale,
all'art. 2598.
A queste disposizioni, com'è noto, devono aggiungersi
quelle contenute nella c.d. legge “antitrust” (legge 10 ottobre
1990, n. 287).
Infine, per quanto attiene al versante sovranazionale, trova
applicazione anche tutto il complesso della normativa (e giurisprudenza)
comunitaria derivante dall'applicazione degli artt. 81
(ex art. 85) ss. del Trattato delle Comunità europee e del regolamento
comunitario sulle concentrazioni (Reg. CEE n. 4064/89,
come modificato dal Reg. CE n. 1310/97).
Senza poter affrontare approfonditamente in questa sede
tutta la complessa disciplina della concorrenza, vale comunque
la pena di richiamare le principali indicazioni della normativa
nazionale, prima di affrontare le tematiche più legate al
commercio elettronico.
Secondo quanto prevede il codice civile e ferme restando
le disposizioni che concernono i segni distintivi (marchio, insegna,
etc.) e i brevetti, sono atti di concorrenza sleale:
(segue »») conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe
dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza.
In ogni caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate
per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha
predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto
o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro
contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni,
restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga
o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla
competenza dell'autorità giudiziaria”. l'uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione
con i nomi o con i segni distintivi legittimamente
usati da altri, o l'imitazione servile dei prodotti di un
concorrente, o il compimento con qualsiasi altro mezzo
atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività
di un concorrente;
2) la diffusione di notizie e apprezzamenti sui prodotti e
sull'attività di un concorrente, idonei a determinare il discredito,
o l'appropriazione di pregi dei prodotti o dell'impresa
di un concorrente;
3) il valersi direttamente o indirettamente di ogni altro
mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale
e idoneo a danneggiare l'altrui azienda.
La disciplina antitrust – analogamente a quanto previsto
nel diritto comunitario – proibisce (salva autorizzazione) la realizzazione
di intese e/o pratiche concordate tra imprese restrittive
della concorrenza nonché gli abusi di posizione dominante
sul mercato.
L'art. 2 della legge n. 287/90 vieta, infatti, le intese tra imprese
che "abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere
o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza
all'interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante,
anche attraverso attività consistenti nel:
a) fissare direttamente o indirettamente i prezzi d'acquisto
o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi
al mercato, gli investimenti, lo sviluppo tecnico o
il progresso tecnologico;
c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento;
d) applicare, nei rapporti commerciali con altri contraenti,
condizioni oggettivamente diverse per prestazioni
equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati
svantaggi nella concorrenza;
e) subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da
parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari
che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non
abbiano alcun rapporto con l'oggetto dei contratti stessi".
Come si accennava, l'Autorità garante della concorrenza
può autorizzare intese che, seppur restrittive della concorrenza,
diano luogo a miglioramenti nelle condizioni di offerta sul
mercato i quali abbiano effetti tali da comportare un sostanziale
beneficio per i consumatori e che siano individuati anche tenendo
conto della necessità di assicurare alle imprese la necessaria concorrenzialità sul piano internazionale e connessi in
particolare con l'aumento della produzione, o con il miglioramento
qualitativo della produzione stessa o della distribuzione
ovvero con il progresso tecnico o tecnologico.
Per quanto riguarda invece l'abuso di posizione dominante,
questo comportamento non è ammesso, anche se è consentito
detenere una posizione di predominio sul mercato nazionale
o in una sua parte rilevante.
L'art. 3 della predetta legge vieta inoltre di :
a) imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto,
di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente
gravose;
b) impedire o limitare la produzione, gli sbocchi o gli accessi
al mercato, lo sviluppo tecnico o il progresso tecnologico,
a danno dei consumatori;
c) applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti
condizioni oggettivamente diverse per prestazioni
equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati
svantaggi nella concorrenza;
d) subordinare la conclusione dei contratti all'accettazione
da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari
che, per loro natura e secondo gli usi commerciali,
non abbiano alcuna connessione con l'oggetto
dei contratti stessi.
Le fattispecie peculiari di concorrenza
sleale su Internet
Le regole sommariamente indicate valgono anche per chi
opera su Internet, come dimostrano i provvedimenti dell’Autorità
garante in materia. Esistono inoltre una serie di fattispecie peculiari
di concorrenza sleale che si sono sviluppate proprio a causa
delle caratteristiche tecniche della “navigazione” ipertestuale.
In particolare, la prassi della riproduzione sul proprio sito
web del contenuto di un altro sito o di pagine web altrui ha determinato
le fattispecie dell’hyperlinking, del framing, del browsing
e del caching i cui elementi distintivi consistono, prevalentemente,
nelle modalità e nelle finalità per cui la riproduzione
viene realizzata.
a) L’hyperlinking
La peculiarità del linguaggio HTML (che, come è noto, è il
linguaggio delle pagine web) di consentire, attraverso i collegamenti
ipertestuali, il raggiungimento di un’altra pagina su
Internet o di un altro sito, semplicemente “cliccando” con il
mouse sulla parola evidenziata, può determinare le seguenti tipologie
di illecito:
a) violazione dei diritti di proprietà intellettuale, qualora si
ingeneri nell’utente del sito la convinzione che tali contenuti
appartengano al sito di partenza e non a quello
raggiunto (la violazione potrà essere un’usurpazione,
quanto un plagio o una contraffazione);
b) realizzazione di un atto di concorrenza sleale, derivante
in particolare dall’abitudine di realizzare i collegamenti
ipertestuali non con la pagina iniziale del sito raggiunto,
che contiene sia le inserzioni pubblicitarie che le informazioni
per l’utilizzo del sito, ma con quelle successive.
Al di là della violazione del diritto di proprietà intellettuale
(che sarà tutelato con i mezzi previsti nella legislazione ad esso
applicabile), con l'indicato comportamento si provoca la diminuzione
del valore del sito indirettamente “linkato”, oltre all'appropriazione
dei pregi dei contenuti web altrui.
L'illegittimità del comportamento può essere evitata, oltre
all'ipotesi dell'apposita autorizzazione, anche qualora il “rinvio”
sia giustificato da altre situazioni che elidono l'illegittimità.
Si pensi, per es., all'ipotesi della pubblicità comparativa, allorquando
il “link” consente di effettuare il confronto tra vari siti (e
tra i loro contenuti), ovvero qualora vi siano finalità di ricerca
scientifica o intellettuale.
b) Il framing
A differenza dell’hyperlinking, che è normalmente lecito, il
c.d. framing, che ne rappresenta una variante, è da considerarsi
tendenzialmente illecito.
Nel framing, attraverso un collegamento ipertestuale (link)
il contenuto del sito richiamato viene inserito nella pagina web
del sito richiamante, in modo tale da eliminare ogni riferimento
al sito d’appartenenza, dal momento che lo stesso nome di
dominio della pagina è quello del sito richiamante, con l'effetto
di generare la convinzione in chi visita questo sito che i contenuti
non siano di altri.
Ne consegue che il framing è una fattispecie normalmente
illecita, laddove l’hyperlinking può considerarsi, entro certi limiti,
fisiologico rispetto alla struttura della rete Internet.
c) Il browsing
Con il termine browsing, si intende la consultazione di diverse
pagine web contenute in diversi siti, realizzata attraverso
un sito di partenza: da questo se ne raggiungano via via altri,
che a loro volta diventano mezzo di ulteriore collegamento.
Perché ciò possa avvenire è tuttavia tecnicamente necessario
che il contenuto dei siti raggiunti sia riprodotto nel computer
dell’utente.
Tale prassi è ovviamente lecita – si avrebbe una sorta di “licenza
implicita” di riproduzione –, a condizione, tuttavia, che
detta riproduzione sia strumentale alla consultazione e non anche
mezzo per impiegare i contenuti per altri fini.
Se il titolare del contenuto del sito ha reso interamente
fruibile tutta la propria opera, difficilmente si può ipotizzare un
abuso, dal momento che con ciò stesso ne ha presumibilmente
autorizzato l’appropriazione da parte di altri; cosa diversa
è se invece il contenuto sia reso solo parzialmente fruibile
attraverso il sito del titolare, ed invece risulti interamente
riprodotto in un altro sito.
In quest’ipotesi il soggetto che si appropri dell’intero contenuto,
consapevole che nel sito del titolare ne esiste solo parte,
e se ne serva per fini economici, realizza, tolte le eventuali
violazioni del diritto d’autore, un atto di concorrenza sleale
senza poter invocare la scusante della libera utilizzazione.
Il problema che si pone è che il contenuto del sito riprodotto
è quello esistente nel momento in cui la copia avviene, privando
il titolare del potere di apportare successive modifiche.
Lo stesso può dirsi rispetto al valore economico del sito “riprodotto”,
per es. rispetto alla pubblicità in esso presente, privando
il titolare dei vantaggi derivanti dall'incremento di “affluenza”
ai contenuti del suo sito.
d) Il caching
Anche il caching configura una forma di riproduzione, ed è
conseguenza del fatto che le pagine via via raggiunte attraverso
il browsing vengono memorizzate in una memoria (cache) e
buy it
58 In questo senso anche il Considerando n. 23 della proposta di direttiva
del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 dicembre 1997, COM(97)
628 def.- 97/0359(COD), “sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto
d’autore e dei diritti connessi nella società d’informazione”.
rese raggiungibili percorrendo a ritroso il percorso fatto (attraverso
il comando “back”).
I profili di illecito sono pertanto sostanzialmente analoghi a
quanto visto per il browsing, e caratterizzati dall’impossibilità
del titolare del contenuto del sito di interagire con esso, privandolo
delle possibilità di modifica o dei vantaggi pubblicitari.
b) La pubblicità ingannevole e comparativa_
Un’altra serie di disposizioni, relative alla pubblicità ingannevole,
devono essere brevemente illustrate, poiché hanno rilevanza
anche per lo svolgimento delle attività di commercio
elettronico.
La disciplina sulla pubblicità ingannevole è contenuta nel
D.Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 come di recente modificato dal
D.Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67, per includervi la pubblicità comparativa
che prevede, quale finalità, di tutelare la collettività:
a) dalla pubblicità ingannevole;
b) dalle sue conseguenze sleali.
c) nonché di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità
comparativa.
Già la scansione accennata da’ conto dell’ampiezza dei
destinatari che sono individuati negli imprenditori (coloro che
esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o
professionale), nei consumatori e, infine, nel pubblico dei fruitori
di messaggi pubblicitari.
Requisiti della pubblicità legittima
Il comma 2 dell’art. 1, precisa che la pubblicità deve
essere “palese, veritiera e corretta”, intendendosi con tali
termini un messaggio chiaramente individuabile e riconoscibile
come pubblicità (il riferimento va’ alle pubblicità
mascherate da articoli redazionali), non menzognero e rispettoso
delle regole di lealtà nei confronti dei concorrenti
e dei consumatori.
Si consideri, peraltro, che la veridicità del messaggio non
esclude una giudizio sulla sua ingannevolezza, posto che
una pubblicità solo parzialmente veritiera può, per ciò stesso,
indurre in inganno, pur se le indicazioni fornite siano assolutamente
vere.
L’art. 2 del decreto si apre, al comma 1, con la definizione
di “pubblicità”, intendendosi per tale un messaggio, in
qualsiasi forma, che sia diffuso nell’esercizio di una qualsiasi
attività economica (la disposizione fa infatti riferimento all’attività
commerciale, industriale, artigianale e professionale)
con lo scopo di:
a) promuovere la vendita di beni mobili o immobili (sono
quindi esclusi i diritti);
b) l a costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi sui
beni di cui alla lett. a);
c) la prestazione di opere o di servizi.
La pubblicità, oltre alle ipotesi ‘classiche’ di advertise,
comprende anche fattispecie più specifiche come quella istituzionale
(o di pura immagine); la sponsorizzazione; la pubblicità
per via postale (c.d. mailing) e la pubblicità all’interno del
punto vendita.
Pubblicità ingannevole
Il predetto articolo 2 continua con la definizione di “pubblicità
ingannevole”.
La pubblicità è considerata ingannevole quando “in qualunque
modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o
possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è
rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole,
possa pregiudicare il loro comportamento economico,
ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente”
[art. 2, lett. b) D.Lgs. n. 74/1992].
Da questa disposizione possiamo trarre, in primo luogo,
una prevalenza degli interessi dei destinatari della pubblicità
(siano essi persone fisiche o giuridiche) con la conseguente
posposizione di quelli delle imprese concorrenti. In particolare,
presupposto dell’ingannevolezza è il possibile pregiudizio della
libera scelta economica del consumatore.
In secondo luogo, l’ingannevolezza risulta essere un requisito
di giudizio di margini molto più ampi rispetto a quello basato –
come si è già detto – sulla semplice veridicità del messaggio
pubblicitario: anche informazioni di per sé vere, in un particolare
contesto visivo o logico, possono infatti ingenerare una falsa rappresentazione
della realtà e quindi compromettere (anche potenzialmente)
il comportamento economico dei soggetti raggiunti
dalla réclame. Si considera ricompresa nella pubblicità ingannevole
anche quella “reticente” e quella “suggestiva” mentre, per la
liceità della pubblicità iperbolica, occorre che l’esagerazione sia
talmente evidente da elidere qualsiasi possibilità decettiva.
Dal testo della disposizione è possibile trarre i referenti per
compiere un giudizio sulla ingannevolezza della pubblicità.
Il messaggio pubblicitario è ingannevole:
quando ha la capacità di indurre in errore i soggetti che
vengono raggiunti dallo stesso. Si parla di “soggetti” e
non di “consumatori” poiché la pubblicità non riguarda
solo questi ultimi ma qualsiasi operatore che può – in
qualunque fase della distribuzione dei prodotti e/o dei
servizi – essere influenzato e condizionato dalla pubblicità,
in relazione alla fase che lo individua quale interlocutore
dell’operazione promozionale;
quando, a causa del suo carattere ingannevole, possa
pregiudicare il comportamento economico delle persone
fisiche o giuridiche alle quali è rivolta;
quando lede o possa ledere un concorrente. Il riferimento
alle imprese concorrenti, posto che la disposizione può
essere attivata da qualsiasi soggetto (indipendentemente
quindi dal rapporto concorrenziale e dalla ricorrenza
della qualità di impresa), può essere considerato
un elemento che concorre ad arricchire il contenuto
delle possibilità offerte dall’art. 2598 cod. civ.
L’art. 3 del D.Lgs. n. 74/1992 indica, in via meramente
esemplificativa, alcuni elementi per la valutazione dell’ingannevolezza
della pubblicità:
le caratteristiche strutturali dei beni o dei servizi (la loro
disponibilità, la natura, l’esecuzione, la composizione, il
metodo e la data di fabbricazione, la quantità, la descrizione,
l’origine geografica o commerciale);
le caratteristiche funzionali dei beni o dei servizi (l’inidoneità
agli scopi ed agli usi cui sono destinati);
i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli
effettuati sui beni o sui servizi;
gli aspetti economici, ossia il prezzo indicato e le modalità
usate per calcolarlo, nonché le altre condizioni
(sconti, rateizzazioni, permute, ecc.) in base alle quali i
beni e servizi vengono forniti;
l’uso dei termini “garanzia”, “garantito” e simili senza la
precisazione del contenuto e delle modalità della garanzia
offerta (art. 4, comma 2);
- le qualità dell’impresa pubblicitaria e di quella pubblicizzata,
in relazione all’identità, al patrimonio, a qualifiche
e riconoscimenti, a diritti di proprietà industriale o
intellettuale.
La pubblicità diventa ingannevole e quindi soggetta alle
conseguenze contenute nel decreto quando, trattandosi di
prodotti “suscettibili di porre in pericolo la salute e la sicurezza
dei consumatori”:
a) omette di offrire la giusta informativa;
b) induce i consumatori ignari “a trascurare le normali regole
di prudenza e vigilanza”.
Ne consegue che la sola omissione di informazioni non è
sufficiente ad integrare il comportamento illecito se il prodotto,
di per sé, rende evidente l’impiego di normali cautele, ovvero
non si induce comunque all’inosservanza delle cautele del caso.
Secondo un’opinione da accogliersi, anche l’imprenditore
concorrente può contestare la carente informazione presente
nella pubblicità quando il difetto di warnings possa tradursi in
una distorsione della concorrenza, portando, per es., il consumatore
ad acquistare un prodotto, proprio in ragione della sua
più facile utilizzazione.
La pubblicità comparativa
Come si è già detto, il D.Lgs. n. 74/92 è stato integrato dal
D.Lgs. n. 67/2000, in attuazione della direttiva 97/55/CE, al fine
di includere nella disciplina della pubblicità ingannevole anche
le regole per la liceità della pubblicità comparativa.
Si tratta di una innovazione significativa, posto che la giurisprudenza
ha sempre considerato scorretta una pubblicità effettuata
utilizzando il prodotto, ovvero il nome e il marchio di
un’impresa concorrente.
Il decreto 67/2000, dopo aver “rettificato” sia la titolazione
del D.Lgs. n. 74/92 59 che l’art. 1, comma 1, indicando, quali
obiettivi della disciplina anche “le condizioni di liceità della
pubblicità comparativa”, ne fornisce la definizione, introducendo
una lettera b-bis), nell’art. 2, comma 1.
Per “pubblicità comparativa” si intende “qualsiasi pubblicità
che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente
o beni o servizi offerti da un concorrente”.
Un nuovo art. 3-bis), introdotto nel D.Lgs. n. 74/92, fornisce
le indicazioni per la liceità di questo tipo di pubblicità che
è ammessa se rispetta le seguenti condizioni:
a) non è ingannevole secondo quanto previsto nella disciplina
“generale”;
b) confronta beni o servizi omogenei, ossia che soddisfano
gli stessi bisogni;
c) confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative (compreso
eventualmente il prezzo), di tali beni e servizi, a
condizione che tali dati utilizzati per il confronto siano
dimostrabili;
d) non determina confusione sul mercato tra:
l’operatore pubblicitario ed un concorrente;
marchi, denominazioni commerciali ed altri segni distintivi;
fi beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di
un concorrente;
e) non reca discredito o denigrazione ai marchi, denominazioni,
o altri segni distintivi, ovvero ai prodotti, servizi,
attività o circostanze di un concorrente;
f) non pone in comparazione prodotti che non hanno denominazione
di origine, ovvero la stessa denominazione;
g) non trae indebitamente vantaggio dalla notorietà del
marchio, denominazione commerciale, o altro segno
distintivo del concorrente, ovvero dalla denominazione
di origine dei prodotti di quest’ultimo;
h) non rappresenta un bene o servizio come imitazione o contraffazione
di beni o servizi protetti da privative industriali
ovvero da una denominazione commerciale depositati.
Qualora il confronto si riferisca ad una offerta speciale deve
essere indicato, in modo chiaro e non equivoco, il termine
finale dell’offerta e, se questa non sia ancora iniziata, la data di
inizio e le eventuali altre condizioni particolari, tra le quali se
l’offerta è legata alla disponibilità dei beni o dei servizi.
Le condizioni di liceità appena indicate, possono essere
suddivise in quattro gruppi con i quali trovano applicazione,
anche per la pubblicità comparativa, i principi generali di “correttezza
pubblicitaria”.
Il primo gruppo di condizioni – che riguardano maggiormente
la tutela del mercato e dei consumatori – attengono al
rispetto del principio di non ingannevolezza della pubblicità
che vale anche per l’effettuazione della comparazione: si pensi
quando i prodotti non sono omogenei (o affini), ovvero le caratteristiche
non siano verificabili (del tipo: “il prodotto A è più
buono del prodotto B”).
Le altre condizioni possono ascriversi in tre raggruppamenti
relativi, rispettivamente, al divieto di denigrazione, al divieto
di confusione e al divieto di appropriazione di pregi altrui
(c.d. pubblicità “per aggianciamento”). Si tratta, evidentemente,
di principi noti alla disciplina delle concorrenza (v. l’art.
2598 cod. civ.) che mirano essenzialmente alla tutela delle imprese
concorrenti.
In questa direzione, è pacifica l’illiceità di una comparazione
denigratoria che determini il discredito del prodotto, servizio,
marchio etc. del concorrente, anche se ci sarà molto da
discutere sui limiti di questa denigrazione, considerando che,
in un certo senso, essa è implicita nella comparazione: l’impresa
che si avvale della comparazione, evidentemente, usa il
termine di riferimento per dimostrare che il suo prodotto (o
servizio) è migliore e, quindi, che l’altro è inferiore.
Particolare interesse presenta il divieto di pubblicità «per
agganciamento» che rappresenta l’altra faccia della comparazione
tesa ad affermare la superiorità del proprio prodotto. In
questa fattispecie, l’illiceità consiste nell’associare il prodotto
ad un marchio rinomato o ad un prodotto con particolari caratteristiche,
in modo da generare nel consumatore l’impressione
che il prodotto pubblicizzato abbia gli stessi pregi del prodotto
del concorrente utilizzato come termine di confronto.
I controlli
La competenza generale circa il controllo della pubblicità
ingannevole è attribuita all'Autorità Garante della concorrenza
e del mercato (istituita con la L. 10 ottobre 1990, n. 287) anche
se permangono le attribuzioni demandate dalla legge ad
altri organi: al Garante dell’editoria, che deve essere consultato
quando la pubblicità è diffusa attraverso la stampa o i
mezzi radiofonici e televisivi;
- all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alla
quale confluiranno le competenze del Garante;
- al giudice amministrativo, in sede di riesame delle
decisioni dell'Autorità Garante;
- al giudice ordinario per i procedimenti in materia di
concorrenza sleale.
Secondo quanto prevede l’art. 8, come sostituito dall’art. 6
del D.Lgs. n. 67/2000, gli interessati possono chiedere l’inibitoria
rispetto alle fattispecie di pubblicità ingannevole o comparativa
(illecita) anche a organismi volontari e autonomi di autodisciplina.
Conseguenze concrete della pubblicità
ingannevole nella stipulazione di contratti
Spostando ora l'ottica sulle esigenze concrete per i consumatori,
risulta utile analizzare brevemente quali siano le conseguenze
disciplinari della pubblicità nella stipulazione di contratti
di acquisto.
Sotto il profilo dell'incidenza della pubblicità sulla formazione
del contratto, il D.Lgs 74/1992 inserisce degli elementi
ulteriori di informazione sia rispetto a quanto prevede l'art.
1336 cod. civ., sull'offerta al pubblico (ove si parla solo degli
“estremi essenziali del contratto”), che riguardo ai semplici
inviti ad offrire.
Tradizionalmente si riteneva potersi distinguere nettamente
tra l'attività pubblicitaria, la fase precontrattuale e il regolamento
contrattuale, in forza di una successione temporale in
cui la pubblicità assume solo una funzione di tipo promozionale
(persuasiva). Con la maggiore accentuazione del ruolo informativo
anche le relative regole tendono sempre più a confluire
nell'area segnata dal rispetto del canone della buona fede precontrattuale.
Quanto alle conseguenze:
a) la rilevanza della pubblicità ingannevole nella formazione
del contratto – tradizionalmente analizzata sotto il profilo
del dolo contrattuale – con il D.Lgs. 74/1992 si sposta verso
un'“oggettività” della valutazione che prescinda da un'indagine
circa l'elemento soggettivo dell'emittente, anche se non si
escludono le tradizionali ipotesi di comportamenti dolosi o colposi
(con le condizioni richieste dall'art. 1439 cod. civ.) tesi a
far concludere un contratto;
b) si discute se la responsabilità precontrattuale possa coinvolgere
il soggetto che fornisce al consumatore le indicazioni ingannevoli
quando poi, tecnicamente, la mancata stipulazione
del contratto intercorre tra quest'ultimo ed il venditore (che non
sempre coincide con il produttore o l'emittente il messaggio
pubblicitario). Secondo la giurisprudenza e una parte della dottrina
sembra convincente la ricostruzione che afferma l'ipotizzabilità
di una responsabilità precontrattuale anche nei confronti di
un soggetto che trasferisce informazioni rilevanti ai fini della
conclusione del contratto, pur non essendone parte né in senso
formale né in senso sostanziale.
Il codice prevede, circa l'incidenza dell'attività del terzo
sulla formazione del contratto, l'annullabilità del contratto
quando le informazioni ingannevoli dolosamente rese da detto
terzo siano note al contraente che ha tratto vantaggio dai raggiri
(art. 1439, comma 2, cod. civ.). L'applicabilità della fattispecie
è dunque vincolata al riscontro di un'intenzione dolosa
nel messaggio pubblicitario, ma ciò non esclude possa verificarsi
un pregiudizio anche nella fase precedente alla conclusione
del contratto, seppur con le difficoltà di quantificare il
danno ricevuto dall’“adescamento” ingannevole;
c) nell’ipotesi in cui, dopo il messaggio pubblicitario sia seguita
la stipulazione del contratto può accadere che le informazioni
pubblicizzate circa le caratteristiche dell'affare, non siano
poi realmente inserite nel contratto (benché fossero “attese” da
compratore), ovvero modificate a svantaggio dell'acquirente.
Per il primo caso deve ritenersi che la “promessa pubblicitaria”
di talune clausole (garanzie, pagamenti differiti, sconti)
rientri implicitamente nel testo del contratto “quand’anche la
inserzione esteriorizzi una volontà di trattare e non di concludere”.
Nel secondo caso, invece, normalmente permane il diritto
di modifica unilaterale delle condizioni del contratto, purché
sia comunicata alla controparte. La mancata comunicazione
obbliga al risarcimento dei danni.
La pubblicità su Internet
La pubblicità diffusa su Internet soggiace alle regole sopra
illustrate, come dichiarato espressamente anche dall'Autorità
antitrust 60, seppur siano necessari degli “aggiustamenti” normativi
rispetto ad alcune tipologie di marketing aggressivo.
Per esempio una modalità piuttosto diffusa di promozione
consiste nell'invio di messaggi pubblicitari sulla casella di posta
elettronica dei potenziali interessati. Questo è possibile
poiché, com'è noto, chi si muove su Internet lascia spesso
(volontariamente o involontariamente) informazioni che lo riguardano.
Non esistendo un espresso divieto di invio di materiale
pubblicitario indesiderato, non è possibile rifarsi al citato D.Lgs. n. 74/92 ma occorrerà trovare un'altra fonte di tutela.
Questa può essere individuata nella legge n. 675/96 – cd. legge
sulla privacy – che, all'art. 13, comma 1, lett. e), prevede, in
capo all'interessato, “(…) il diritto di opporsi, in tutto o in parte,
al trattamento di dati personali che lo riguardano, previsto a fini
di informazione commerciale o di invio di materiale pubblicitario
o di vendita diretta ovvero per il compimento di ricerche
di mercato o di comunicazione commerciale interattiva”.
La direttiva comunitaria sul commercio elettronico (di cui si
dirà, più avanti, al par. 9.8), prevede all’art. 7 delle disposizioni
proprio per regolare questa fattispecie. Il primo obbligo di (Provv. 22 maggio 1997, n. 5015, rinvenibile nel sito dell’Authority,
www.acgm.it.
)
“conformazione” degli Stati membri riguarda il diritto da parte
di agisce in rete di non ricevere comunicazioni commerciali non
sollecitate e non identificabili come tali in modo chiaro e inequivocabile,
per consentire al destinatario di esercitare il diritto di
scelta anche rispetto alla promozione on line e per e-mail.
Fatte salve le previsioni della disciplina sulla privacy, la direttiva
prevede che gli utenti (persone fisiche) di Internet abbiano
la possibilità di iscriversi in un registro “negativo”, che deve
essere previsto dalla normativa nazionale, nel quale sia indicata
la volontà di non ricevere comunicazioni commerciali per posta
elettronica. Gli operatori hanno l’obbligo, prima dell’invio di comunicazioni
di questo genere di consultare detti registri per verificare
previamente la volontà del destinatario del messaggio.
Preliminare però al quadro da regolamentare è la definizione
di pubblicità on line che la suddetta direttiva definisce, con
il termine “comunicazione commerciale”, come “tutte le forme
di comunicazione destinate, in modo diretto o indiretto, a promuovere
beni, servizi o l’immagine di un’impresa, di un’organizzazione
o di una persona che esercita un’attività commerciale,
industriale o artigianale o una libera professione” 61
Per delimitare il campo, la disposizione citata, soggiunge
che non costituiscono di per sé comunicazioni commerciali:
a) le indicazioni necessarie per accedere direttamente all’attività
dell’impresa, organizzazione o persona, come
un nome di dominio o un indirizzo di posta elettronica;
b) le comunicazioni relative a beni o servizi o all’immagine di
una impresa, organizzazione o persona elaborate in modo
da essa indipendente, in particolare se a titolo gratuito.
Alla luce di queste indicazioni, ne consegue, che non costituisce
comunicazione commerciale:
a) il semplice fatto di essere l’utilizzatore di un sito;
b) la fornitura di informazione non promozionale;
61 Art. 2, lett. f).
c) il link verso altro sito se lo scopo non è promozionale;
d) la menzione dell’indirizzo di posta elettronica, ovvero il
nome di dominio di altro soggetto se non vi siano finalità
promozionali.
La direttiva prevede inoltre, all’art. 6, una serie di regole di
comportamento degli operatori pubblicitari (e, comunque, di
chiunque effettua pubblicità – qualificabile come tale – in Rete),
ossia:
a) la sua chiara riconoscibilità come tale;
b) l’indicazione della persona fisica o giuridica che ha
commissionato la promozione;
c) la chiara identificazione di offerte promozionali, ovvero
concorsi o giochi promozionali, dei quali – se consentiti
dalla normativa nazionale – devono essere indicate tutte
le condizioni. Anche le condizioni di partecipazione devono
essere presentate in modo chiaro ed inequivocabile.
La pubblicità su Internet può assumere diverse forme. La
più semplice è quella della promozione presente nella home
page e nelle pagine web del sito ovvero in appositi spazi (c.d.
banner) che accompagnano le varie pagine, promozione che
segue alla decisione di accesso da parte dell’utente. Queste
tipologie di pubblicità non determinano particolari problemi
applicativi della disciplina anzidetta.
Diverso deve dirsi per quelle forme di promozione che raggiungono
l’utilizzatore di Internet senza dargli il tempo per il suo
eventuale consenso ovvero per la scelta di un altro sito. Tra queste,
oltre quelle, presenti nelle home pages dei gestori di connettività,
ovvero, attualmente, nei c.d. “portali”. Si tratta però di attività
promozionali il cui consenso è stato concesso – di solito –
sottoscrivendo il contratto relativo all’accesso ad Internet.
Vi sono però delle forme di promozione che esulano dai
contesti chiaramente identificabili come attività commerciali
(nei quali l’attività pubblicitaria si può considerare scontata).
Un primo esempio è quello della posta elettronica non richiesta,
del quale si è già detto in precedenza. Un'altra forma è
quella denominata “spamming”, tecnica con la quale la pubblicità
si “insinua” in contesti non commerciali come i gruppi di
discussione, ovvero nell’ambito di chat lines.
Ma i veri problemi che sorgono nelle fattispecie di pubblicità
on line derivano dalla assenza di limiti spaziali delle reti telematiche
che rendono difficile la ricerca della disciplina nazionale
applicabile (si pensi ad una pubblicità che provenga da un
paese extraeuropeo ovvero di uno comunitario con regole non
perfettamente identiche) e della concreta possibilità di applicare
le sanzioni in caso di comportamenti illegittimi.
Rispetto ad alcune modalità operative per la pubblicità in
rete si segnalano, in ambito nazionale, le indicazioni del codice
dell’Associazione Italiana Internet Providers (AIIP) e le iniziative
a livello sovranazionale della Camera di commercio
internazionale (ICC).
Per quanto riguarda il codice AIIP, questo prevede che il
fornitore di contenuti si impegna a rispettare la disciplina contenuta
nel Codice ai autodisciplina pubblicitaria sia per la pubblicità
a favore dei servizi offerti, veicolata attraverso gli stessi
servizi o attraverso altri mezzi, sia per la pubblicità volta a promuovere
altri servizi o prodotti, in cui il servizio rappresenta
unicamente il veicolo di diffusione 62.
Per alcune modalità operative per la pubblicità in rete si
segnalano le iniziative della Camera di commercio internazionale
(ICC) che, nel marzo 1996, ha predisposto dei “Principi
per le comunicazioni commerciali in Internet, WWW, servizi on
line e reti elettroniche” .
Oltre a ribadire i concetti di liceità e verità della pubblicità,
nonché il rispetto delle regole di concorrenza, sono individuate,
tra le altre, le seguenti indicazioni di condotta per gli operatori
pubblicitari e commerciali:
62 V. l’art. 9e del Codice di autoregolamentazione, in www.aiip.it/autoreg.
htm
63 Leggibili all’indirizzo www.iccwbo.org/home/statemets_rule/rules/1998/
internet_guidelines.asp
a) gli operatori commerciali e pubblicitari devono dichiarare
la propria identità;
b) deve essere garantito il diritto di non ricevere pubblicità
non richiesta;
c) deve essere indicato all'utente quando l'utilizzo dei
messaggi pubblicitari o servizi comporta un costo addizionale.
c) Il problema dei Nomi di dominio
Com’è ormai risaputo, il domain name (nome di dominio) è il
sistema mediante il quale viene identificato ogni computer collegato
alla rete Internet. In realtà, l’indirizzo basato sul protocollo
Internet (ossia, quello che la “Rete” riconosce) è composto
da quattro serie di numeri. A questo codice numerico, corrisponde
un indirizzo alfanumerico – il nome di dominio, per l’appunto
– mediante il quale è più semplice accedere ai vari siti.
I nomi di dominio, sono formati, partendo da sinistra, da una
serie di caratteri alfanumerici scelti dal soggetto interessato (Second
Level Domain Name), cui segue una stringa “standard”
(Top Level Domain Name) che, al momento, sono le seguenti:
.com (organizzazioni o imprese commerciali);
.net (organizzazioni di supporto e/o gestione della rete);
.org (organizzazioni di diritto privato, come associazioni,
enti non profit, etc.);
.int (organizzazioni internazionali);
.edu (università ed enti di ricerca);
.gov (enti governativi);
.mil (enti militari);
il Country Code Top-level Domain il quale indica, con due lettere,
ogni nazione, secondo la codifica internazionale ISO 03166
(per es., ".it", per contrassegnare l’Italia).
I nomi di dominio vengono assegnati sulla base di una procedura
gestita ora dall’ICANN (Internet Corporation for Assigned
Names and Numbers) da parte di appositi organismi nazionali (detti Registration Authorities), sulla base delle Regole di
Naming .
In Italia, l’assegnazione degli IP Address è svolta – nell'ambito
del CNUCE del CNR di Pisa – da un gruppo autonomo di
tecnici del Reparto Applicazioni Telematiche dell’Istituto IAT,
nel rispetto del Regolamento ITA-PE, emanato dalla Naming
Authority italiana .
Con lo sviluppo delle potenzialità commerciali di Internet,
sono sorte tutta una serie di problematiche legate all’utilizzo
da parte delle imprese del proprio marchio come segno distintivo
anche sulla rete e delle regole di assegnazione dei nomi di
dominio che non prevedono la verifica, rispetto al medesimo,
della legittimazione del richiedente e, in aggiunta, viene seguita
la regola del first come, first serve.
Risulta quindi evidente un potenziale conflitto tra diversi
soggetti rispetto alla loro identificazione su Internet, resa vieppiù
complessa dalla non definita natura giuridica del domain
name. Secondo alcuni, infatti, questo altro non sarebbe che la
versione “leggibile” dell’indirizzo Internet secondo il protocollo
numerico, più sopra richiamato, che identifica informaticamente
il sito e non l’impresa né tantomento il suo marchio, non
essendo richiesta alcuna capacità distintiva (Trib. Bari, ord. 24
luglio 1996 e, di recente, Trib. Firenze, ord. 29 giugno 2000, nel
caso Sabena, secondo il quale il nome di dominio costituisce
un mero indirizzo, paragonabile al numero di telefono).
La nostra giurisprudenza, a parte le due decisioni indicate,
è tuttavia concorde nell’attribuire al nome di dominio
anche un carattere distintivo dell’impresa e/o dei suoi
64 Mente scriviamo questo capitolo è giunta la notizia che l’ICANN, nel
meeting di Yokohama del luglio 2000, ha deciso di varare dei nuovi
domini generici: “.shop”, “.news” e “.tel”, destintati a contrassegnare,
rispettivamente, i siti destinati al commercio elettronico, ai giornali on
line ed alle società telefoniche. Per il quale si rinvia al sito
www.nic.it
prodotti o servizi, in analogia con la funzione attrattiva
svolta dal marchio e dall’insegna (Trib. Pescara, ord., 9
gennaio 1997; Trib. Milano, ord. 9 giugno 1997; Trib. Roma,
ord., 2 agosto 1997).
Questa soluzione, indispensabile per trovare un termine normativo
di riferimento nell’ambito della legge marchi (legge 21 giugno 142,
n. 929, come integrata e modificata dal D.Lgs 4 dicembre 1992, n. 480)
non ha però risolto tutti i problemi.
Nella caso “Teseo”, una società (per l’appunto la Teseo S.p.A.)
contestava l’uso del domain “teseo.it” da parte della Teseo Internet
Provider S.r.l., ravvisando gli estremi della contraffazione di marchio
e della condotta concorrenzialmente scorretta. Il Tribunale di Bari respingeva
la richiesta di provvedimento d’urgenza, osservando che: a)
le attività delle due imprese non erano confondibili e b) il nome di dominio
non assurge a carattere distintivo dei soggetti che lo impiegano;
occorre verificare cosa contengano le rispettive pagine web.
Nel caso “Amadeus” (www.amadeus.net), la capacità distintiva
del nome di dominio è stata, invece, affermata con chiarezza, nei confronti
di una società che aveva registrato il dominio “amadeus.it” ed
operarava nello stesso settore (viaggi).
Il Tribunale di Milano, dopo aver riconosciuto – nel caso - carattere
identificativo del dominio con le attività dell’impresa, in analogia
con l’insegna, ha ritenuto opportuno concedere la richiesta inibitoria
(Trib. Milano, ord., 9 giugno 1997, cit.).
Anche nel caso "portaportese", la ricorrente lamentava l’uso del
proprio marchio registrato (relativo alla nota pubblicazione) da parte di
un’altra società che ne aveva avuto per prima l’assegnazione quale nome
di dominio. Il Tribunale ha riconosciuto esistente il rischio di confusione
e, quindi di concorrenza sleale, soprattutto per l’affinità di attività
di entrambe le società, considerando del tutto irrilevante l’avvenuta assegnazione
del dominio da parte della Naming Authority (Trib. Roma,
ord., 2 agosto 1997 in Disciplina del commercio, 1998, n. 3, p. 859 ss.)
Nel caso “Mario Cirino Pomicino”, il Tribunale di Napoli, ha stabilito
che l’utilizzo di segni distintivi appartenenti ad altra azienda,
mediante la diffusione di messaggi su Internet, può ingenerare nella
clientela confusione sull’effettiva provenienza dei prodotti e sull’identità
personale dell’imprenditore, determinando il rischio di una
perdita economica dato l’evidente sviamento di clientela derivante
dalla capillare diffusione della rete Internet (Trib. Napoli ord., 9 agosto
1997).
Il Tribunale di Macerata, sulla scorta delle considerazioni che precedono,
ha considerato illecita la registrazione del domain name "pagineutili.
it", da parte di un soggetto diverso dal titolare del relativo
marchio, configurandosi un contrasto con la legge sul diritto di autore,
nonché una contraffazione di marchio, indipendentemente dalla circostanza
che il titolare del marchio avesse già effettuato una registrazione
a suo nome di un diverso domain name dato che, la possibilità di
confusione è fonte di danno e che nulla vieta al titolare di chiedere la
cancellazione del vecchio nome di dominio per ottenere la registrazione
di quello rivendicato (Trib. Macerata, ord., 2 dicembre 1998).
Più di recente la giurisprudenza ha affrontato le seguenti tematiche:
a) l’utilizzazione, come nome di dominio, di un marchio in corso di registrazione;
b) la registrazione di un nome di dominio non per il suo impiego ma unicamente
per la rivendita al soggetto titolare del relativo marchio registrato;
c) la registrazione di un nome di dominio (nel caso di specie: andala.it)
da parte di un imprenditore di un marchio di fatto, pubblicizzato da
ampia campagna di stampa, da parte della società Tiscali;
d) la registrazione da parte di un imprenditore, operante anche nel settore
dell’informazione turistica, del nome di dominio www.touring.it.
rispetto al sito del Touring Club Italiano, (www.touringclub.it), riproduttivo
del marchio regolarmente registrato da parte dell’omonima
associazione.
Per quanto riguarda la prima fattispecie, il Tribunale di Verona ha
stabilito che deve essere inibita, in via d’urgenza, l’utilizzazione di un
marchio in corso di registrazione quale domain name per l’indirizzo di
un sito sulla rete Internet (Trib. Verona, ord., 25 maggio 1999).
La seconda fattispecie, denominata di domain grabbing, è sorta a
seguito della registrazione come dominio del marchio registrato (della
nota stilista Laura Ashley) da parte di altra società che l'ha offerto in
acquisto alla prima. Il Tribunale, sulla scorta della
rinomanza del marchio e della più
ampia tutela dei marchi notori, ha stabilito che è pregiudizievole ogni
comportamento, realizzato per trarre vantaggio da detto carattere di
notorietà, al di là di una attività confusoria o potenzialmente tale,
concretizzata attraverso l’uso illecito di un segno identico o simile
(Trib. Parma, decr. 12 ottobre 1998; Id., ordd., 11 gennaio 1999 e 22
febbraio 1999).
Nel caso “andala” il confronto tra nome di dominio e marchio di
fatto è stato risolto dal giudice a vantaggio del secondo, configurando
la registrazione del dominio da parte di altri quale concorrenza sleale
per contraffazione (Trib. Cagliari, ord., senza indicazione della data, in
www.diritto.it).
Per quanto riguarda, infine, l'utilizzazione come dominio del termine
“touring”, la riproduzione della parte significativa del marchio registrato
dalla Touring Club, è stata ritenuta sufficiente ad integrare gli
estremi della concorrenza sleale per confusione, soprattutto allorquando
i servizi sono dello stesso tipo (Trib. Viterbo, ord., pubblicata sul sito
www.touringclub.it), ed il sistema di ricerca su Internet, basato su
“motori di ricerca” e parole testuali, rende il termine rilevante ai
fini della raggiungibilità di un determinato prodotto o servizio.
Il tema dei nomi di dominio è stato oggetto di un apposita
proposta di intervento regolamentare, come si dirà, più avanti.
d) La privacy
Il commercio elettronico – svolto in una rete aperta come
Internet – determina, a carico delle imprese, anche l'osservanza
delle disposizioni sulla riservatezza, contenute nella legge
n. 31 dicembre 1996, n. 675, cui si aggiungono i contenuti del
D.Lgs. 31 maggio 1998, n. 171.
In base alla legge n. 675/96 (generalmente nota come “legge
sulla privacy”), la raccolta e il trattamento di dati personali –
come quelli che circolano volontariamente o involontariamente
anche su Internet – sono soggetti ad alcuni principi generali e,
precisamente:
a) il principio di liceità e correttezza nel loro trattamento,
con l’individuazione di un soggetto responsabile del loro
trattamento;
b) il principio della limitazione degli scopi: i dati sono raccolti
ed impiegati solo per scopi precisamente individuati;
c) il principio dell’accesso da parte dell’interessato per
controllare la loro esattezza ed indicare, eventualmente,
le rettifiche;
d) il principio del c.d. “diritto all’oblio”, in base al quale i
dati non devono essere tenuti per un periodo superiore
a quello strettamente necessario agli scopi per i quali
sono stati raccolti e trattati.
In base a questa legge, il trattamento, la comunicazione e
la diffusione di dati personali da parte di soggetti privati ed enti
pubblici economici sono consentiti solo previo consenso
dell’interessato, documentato per iscritto.
Condizione per la manifestazione del consenso è l’obbligo
da parte del richiedente di sottoporre all’interessato una informativa
che contenga l’elencazione dei diritti e delle condizioni
previste dall’art. 10 della legge.
Quanto alla legge n. 171 del 1998, recante norme per la tutela
della riservatezza nel settore delle telecomunicazioni, i dati
personali relativi al traffico, trattati per inoltrare le chiamate e
memorizzati dal fornitore del servizio di telecomunicazioni devono
essere cancellati o resi anonimi al termine della chiamata,
eccezion fatta per le esigenze di fatturazione del servizio e
di commercializzazione dello stesso. Nel primo caso, il trattamento
è consentito nel limite del periodo entro il quale la fattura
può essere legalmente contestata mentre, nel secondo caso,
solo previo il consenso dell’interessato.
Le regole indicate trovano applicazione anche al commercio
on line.
Nella proposta di contratto tramite Internet, assumendo esemplificativamente l’ipotesi di un venditore, saranno chiesti i
dati anagrafici per l’identificazione del contraente e quelli fiscali
per l’esecuzione del contratto.
In questa fattispecie “minimale” non si pone alcun problema
di tutela dei dati, poiché la legge 675/96, all’art. 12, comma
1, lett. b), esclude dal consenso dell’interessato il trattamento
dei dati "necessario per l’esecuzione di obblighi derivanti
da un contratto del quale è parte l’interessato o per l’acquisizione
di informative precontrattuali attivate su richiesta di
quest’ultimo, ovvero per l’adempimento di un obbligo legale".
Sarà pertanto sufficiente fornire al compratore l’informativa
prevista dall’art. 10 della legge.
È però cosa notoria che raramente i dati del nostro acquirente
vengono utilizzati solo per la singola contrattazione, essendo
utili anche a costituire un archivio per le iniziative di
marketing dell’impresa venditrice. Essendo queste, evidentemente,
finalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle derivanti dal
contratto siglato, si pone il problema dell'ottenimento del consenso
dell’interessato, affinché sia lecito questo diverso impiego
dei dati raccolti dall’impresa.
Al riguardo è necessario distinguere a seconda che si tratti
di dati di tipo sensibile o meno.
Qualora si versi in quest’ultima ipotesi, il consenso – da
esprimersi per iscritto – seguirà all’informativa prevista dall’art.
10 secondo le seguenti modalità: stampa dell’informativa, sottoscrizione
e successivo invio all’impresa, ovvero invio telematico
del consenso espresso tramite un documento informatico
sottoscritto con la firma digitale, ai sensi del DPR n. 513/97.
Se invece i dati rientrano tra quelli sensibili (si tratta di
quelli idonei a rilevare la razza o l’etnia, le convinzioni politiche
o religiose, ovvero lo stato di salute o la vita sessuale) oltre al
consenso, sarà necessaria la previa autorizzazione del Garante,
qualora non trovino applicazioni autorizzazioni generali.
Quanto detto riguarda i dati consapevolmente assentiti (anche
se, giuridicamente, non sia richiesto il consenso) che sono
solo una parte dei dati che sono reperibili in rete a seguito della
“navigazione” tra i vari siti.
Sul fronte della tutela dei dati personali, Internet sta infatti
dando luogo ad una serie di incertezze derivanti dal fenomeno
meglio conosciuto come “cookies”. Si tratta – com’è risaputo –
di stringhe di testo che, in occasione dell’accesso ad un sito
sono da questo inviate al browser per essere memorizzate sul
disco fisso dell’utente. Questi cookies avrebbero – dal punto di
vista tecnico – lo scopo di velocizzare il caricamento delle pagine
web in occasione delle successive visite allo stesso sito.
Tuttavia, questa procedura consente anche di registrare tutte
le operazioni compiute, il più delle volte nell’assoluta inconsapevolezza
e, quindi, a nostro avviso, in contrasto con il “consenso
informato” presupposto dalla legge n. 675/96 per rendere
lecito il trattamento dei dati.
9.7_Il problema della legge applicabile ai
contratti
Lasciando da parte il problema afferente la giurisdizione
applicabile alle controversie nei rapporti giuridici connessi all'impiego
di Internet, in questa sede è opportuno limitare la visuale
ai soli conflitti di legge applicabile alle obbligazioni nascenti
da contratti.
Secondo quanto disposto dall’art. 57 della legge 31 maggio
1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale
privato) per le obbligazioni contrattuali, relative a vendite mobiliari
(non si applica quindi alla fornitura di beni immateriali), si
rinvia alla Convenzione di Roma del 19 giugno 1980, ratificata e
resa esecutiva dalla legge 18 dicembre 1984, n. 975.
La Convenzione stabilisce che il contratto è regolato:
a) dalla legge scelta dalle parti;
b) dalla legge del paese con cui il contratto presenta il
collegamento più stretto, in assenza di una decisione
espressa delle parti.
Il contratto si presume presenti il collegamento più stretto
con il paese in cui la parte che deve fornire la prestazione ha,
al momento della conclusione, la residenza o, se persona giuridica (società, associazione, etc.), la propria amministrazione
centrale.
Se il contratto attiene all'esercizio di un'attività economica
o professionale della parte, trova applicazione:
a) la legge del luogo dove è la sede principale del fornitore,
ovvero,
b) quella del luogo della diversa sede del fornitore se, ai
termini del contratto, la prestazione deve essere fornita
da una sede diversa da quella principale.
Si consideri, tuttavia, che queste regole non si applicano
per i contratti in cui sia presente un consumatore, per i quali vale
la legge del paese in cui questi ha la sua residenza abituale.
Sono poi previste due ulteriori cautele. È inefficace – ai
sensi dell'art. 1469-quinquies cod. civ. – ogni clausola contrattuale
che stabilisce il rinvio ad una legge di paese extracomunitario
con l'effetto di privare il consumatore della protezione
contro le clausole vessatorie. Infine, l'art. 11, comma 2, del
D.Lgs. n. 185/99, stabilisce che “Ove le parti abbiano scelto di
applicare al contratto una legislazione diversa da quella italiana,
al consumatore devono comunque essere riconosciute le condizioni
di tutela previste dal presente decreto”.
9.8_Le prospettive della legislazione
Il panorama della legislazione che interessa da vicino il
commercio elettronico è destinato a mutare in tempi brevi per
andare incontro a quel processo di convergenza sovranazionale
quantomai necessario in una tipologia di vendita priva di
confini. Non mancano - come vedremo - anche impegni assunti
dal nostro legislatore sulla regolamentazione dei nomi di
dominio, sul commercio elettronico e su quel fronte nevralgico
costituito dalla tutela dei consumatori.
Il versante comunitario_
a) la direttiva comunitaria sul commercio elettronico
Specificamente dedicata al tema del commercio elettronico
è la già menzionata direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
n. 2000/31/CE, dell'8 giugno 2000 66 che inquadra il commercio
elettronico nella tematica più generale della Società dell'informazione,
con l'obiettivo di garantire un elevato livello di integrazione
giuridica necessario per instaurare un vero e proprio
spazio europeo senza frontiere anche per la rete Internet.
In via preliminare occorre richiamare l'attenzione sul fatto
che la direttiva:
a) non intende “armonizzare il settore del diritto penale in
quanto tale” (corsivo nostro);
b) non incide con i principi in materia di libertà di espressione;
c) deve garantire un alto livello di tutela ai minori, alla dignità
umana, ai consumatori ed alla sanità pubblica.
La direttiva lascia impregiudicato il livello di tutela garantito,
in via generale, dal Trattato e “dagli strumenti comunitari”
nonché quello stabilito nelle direttive relative:
- alle clausole abusive;
- ai contratti a distanza;
- alla pubblicità ingannevole e comparativa;
- al credito al consumo;
- ai servizi di investimento mobiliare;
- ai viaggi e vacanze “tutto compreso”;
- alle indicazioni dei prezzi nei prodotti offerti ai consumatori;
- alla sicurezza generale dei prodotti;
- alla tutela per l’acquirente di diritti di godimento a tempo
parziale di beni immobili (c.d. multiproprietà);
66 “Relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione, in
particolare il commercio elettronico, nel mercato interno (“Direttiva
sul commercio elettronico”)”, in GUCE n. L. 178 del 17 luglio 2000.
- ai provvedimenti inibitori a tutela dei consumatori;
- alla responsabilità per danno da prodotto difettoso;
- alla vendita e alla garanzia dei beni di consumo;
- alla vendita a distanza di prodotti finanziari (direttiva non
ancora emanata);
- alla pubblicità dei medicinali per suo umano;
- alla pubblicità e sponsorizzazione dei prodotti del tabacco;
Oltre a queste tematiche, la direttiva riserva particolare attenzione
alla protezione dei dati personali, il cui regime è integralmente
applicabile alla società dell’informazione e, quindi,
al commercio elettronico 67.
La direttiva non mira a regolamentare:
a) gli aspetti fiscali del commercio elettronico, rispetto ai
quali la Commissione europea, il 7 giugno 2000
[COM(2000) 349 def.], ha elaborato un proposta di regolamento
nonché una proposta di direttiva 68;
b) alla vendita a distanza di prodotti finanziari, che sarà
oggetto di apposita direttiva;
c) ai giochi d’azzardo in forma telematica che comportino
una vincita pecuniaria, mentre riguarda “le gare promozionali
o i giochi che hanno l’obiettivo di incoraggiare la vendita
di beni o servizi e in cui gli eventuali pagamenti servono
unicamente ad acquisire i beni o servizi promossi”.
Si pensi all’utilizzo in forma anonima della Rete Internet. Si tratta, rispettivamente, della proposta di Regolamento del Parlamento
europeo e del Consiglio che modifica il Regolamento (CEE) n.
218/92 del Consiglio concernente la cooperazione amministrativa nel
settore delle imposte indirette (IVA) e la proposta di Direttiva del Consiglio
che modifica la Direttiva 77/388/CEE per quanto riguarda il regime
di imposta sul valore aggiunto applicabile a determinati servizi
prestati tramite mezzi elettronici.
La direttiva non si applica inoltre:
- ai servizi della società dell’informazione, secondo quanto
previsto dalle succitate direttive ad eccezione dei servizi
prestati dai notai o altri professionisti con funzioni
equivalenti (si tratta delle funzioni di “pubblica fede” e
della altre funzioni che implicano “un nesso diretto e
specifico con l’esercizio dei pubblici poteri”);
- agli accordi o pratiche riguardanti il diritto delle intese
(ossia le regole di concorrenza applicabili all’impresa,
secondo la dizione della Sezione I, del Capo I del Titolo
VI del Trattato Ce (artt. 81-86));
- alla rappresentanza e alla difesa processuali;
- alle misure comunitarie o nazionali concernenti la tutela
e promozione della diversità linguistica o del pluralismo.
La proposta di direttiva è suddivisa in quattro capi dedicati,
rispettivamente, alle “Disposizioni generali”, ai “Principi”,
all’“Applicazione” e, infine, alle “Disposizioni finali”.
Le “Disposizioni generali”, si aprono con l’indicazione degli
obiettivi e del campo di applicazione della disciplina (art. 1).
La direttiva mira a garantire la libera circolazione dei servizi
della società dell’informazione, intendendosi per tali – secondo
quanto risulta dalle Direttive 98/34/CE e 98/48/CE – “qualsiasi
servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza,
per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario
di servizi, cioè della persona fisica o giuridica che, a
scopi professionali e non, utilizza un servizio della società dell’informazione,
anche per ricercare o rendere accessibili delle
informazioni”.
Questi in sintesi gli elementi principali della direttiva:
a) mercato interno: al prestatore di servizi della società
dell'informazione si applicano le disposizioni nazionali
vigenti nel luogo di stabilimento; gli Stati membri
non possono limitare - salve eccezioni improntate comunque
al principio di proporzionalità (per es. ordine
pubblico, sanità pubblica, tutela dei consumatori) - la
libera circolazione di detti servizi quando provengano
da un altro Stato membro;
b) regime di stabilimento: gli Stati devono escludere che
l'accesso degli operatori allo svolgimento di una delle
attività della società dell'informazione sia soggetta ad
autorizzazione preventiva;
c) obblighi di informazione generale: chi fruisce di servizi
della società dell'informazione deve poter ottenere
dal fornitore, oltre quelle previste dalla direttiva 97/7,
il nome, l'indirizzo (compreso quello di posta elettronica),
le eventuali iscrizioni in albi ruoli, elenchi o registri,
il numero di eventuali autorizzazioni amministrative,
il numero di partita IVA, il prezzo della prestazione
(comprensivo di tutti i costi supplementari);
d) informazioni da fornire: oltre quelle della direttiva
97/7, la comunicazione commerciale deve essere individuabile
come tale, la persona per conto della quale
è effettuata, le regole per le offerte promozionali e
per i concorsi;
e) pubblicità non richiesta: l'obbligo da parte degli Stati
di prevedere che anche la pubblicità su casella di posta
elettronica non sollecitata sia identificabile come
tale dal destinatario.
In particolare, per i contratti per via elettronica, è dedicata
un'intera sezione che prevede:
a) che gli Stati consentano l'efficacia giuridica dei contratti
negoziati e conclusi per via telematica, con possibilità di
deroga per quelli per i quali è previsto l'intervento del
notaio, ovvero concernenti il diritto di famiglia, o i diritti
di successione, oppure prevedano che la loro validità
sia subordinata ad una registrazione pubblica;
b) le informazioni che devono essere fornite al contraente
da parte del proponente un contratto elettronico riguardo,
soprattutto, le varie fasi della conclusione, dell'archiviazione
del contratto (e della sua accessibilità) nonché
della possibilità di correggere gli errori di manipolazione;
c) indicazione circa l'eventuale applicazione di codici di
condotta.
La direttiva prevede – quanto all'inoltro dell'ordine da parte
del destinatario del servizio – che ai fini della conclusione del
contratto:
- l’operatore deve inviare una ricevuta dell'ordine;
- l’ordine e la ricevuta si considerano pervenuti quando
le parti hanno la possibilità di accedervi.
Queste indicazioni non valgono, però, per i contratti conclusi
esclusivamente con scambio di e-mail o “comunicazioni
individuali equivalenti”.
La direttiva affronta anche il regime di responsabilità degli intermediari
(il riferimento va, innanzitutto, ai Provider), distinguendo:
a) il semplice trasporto delle informazioni (mere conduit)
b) la memorizzazione temporanea (caching);
c) la memorizzazione non temporanea (hosting).
In tutte le fattispecie indicate è fatto divieto agli Stati membri
di introdurre obblighi generali di sorveglianza sul contenuto
delle comunicazioni.
Inoltre, l'intermediario, non assume alcuna responsabilità
rispetto al trasferimento delle informazioni, qualora si limiti a
svolgere unicamente l'attività di intermediazione (di questa,
naturalmente risponde), senza alterare le stesse, ovvero scegliere
il destinatario, etc.
La direttiva affronta inoltre le questioni legate all'applicazione
delle disposizioni prevedendo, in particolare, dei meccanismi
per migliorare l'efficienza complessiva di un sistema di
mercato basato sul commercio elettronico.
Il primo meccanismo è costituito dallo spazio che gli Stati
membri devono riservare per incentivare l'adozione di codici di
condotta, da parte di associazioni o organizzazioni imprenditoriali,
professionali o di consumatori, per regolamentare le
problematiche contrattuali.
Il secondo meccanismo è legato alla previsione, da parte
degli Stati membri, di strumenti di composizione stragiudiziale
delle controversie, anche per via telematica.
Quanto ai ricorsi giurisdizionali – e siamo al terzo meccanismo
– la direttiva chiede agli Stati membri di individuare delle
procedure che “consentano rapidamente provvedimenti, anche
provvisori, atti a porre fine alle violazioni e a impedire ulteriori
danni agli interessi in causa”.
Infine, circa il regime sanzionatorio, gli Stati membri dovranno
prevedere che le sanzioni applicabili alle violazione delle
regole sul commercio elettronico siano “effettive, proporzionate
e dissuasive”.
Il termine di conformazione agli obblighi previsti nella direttiva
non è chiaramente indicato: si parla, infatti, del 17 gennaio
2000, termine la cui retroattività, rende evidente l'errore nella
redazione definitiva del testo.
La Direttiva è sottoposta a riesame ogni due anni per
adeguarla all’evoluzione giuridica, tecnica ed economica della
materia.
b) la direttiva sulle garanzie nella vendita
dei beni di consumo_
Uno degli aspetti giuridici da prendere in considerazione
se si vuole fare del commercio elettronico business to consumers
è quello delle garanzie commerciali da offrire ai consumatori.
È vero che il fatto di disporre di una garanzia di qualche tipo,
che assista il bene compravenduto, non è un’esigenza solamente
del consumatore, quanto piuttosto di tutti gli utenti
del web. Trattandosi del soggetto meno attrezzato, sia dal
punto di vista tecnico che da quello finanziario, il consumatore
è in ogni caso il soggetto che più di ogni altro merita protezione,
anche quando effettua acquisti in rete.
Il tema delle garanzie nella vendita dei beni di consumo in
generale è stato oggetto di riflessione da parte del legislatore
comunitario, che nella primavera del 1999 ha emanato una
apposita direttiva (Direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 25 maggio 1999, su taluni aspetti
della vendita e delle garanzie dei beni di consumo) 69, il cui
termine di recepimento da parte degli Stati membri è fissato
al 10 gennaio 2002.
Mancano quindi meno di due anni, ma occorre sfruttare
questo significativo intervallo di tempo per iniziare a riflettere
sulle ricadute che l’introduzione nel nostro sistema giuridico di
questa direttiva potrà recare, soprattutto in una materia come
quella del commercio elettronico e della tutela dei consumatori.
La tutela apprestata in favore del consumatore dalla direttiva
ruota intorno alla nozione di garanzia e al suo presupposto,
vale a dire il difetto di conformità del bene al contratto.
Per “garanzia” si intende qualsiasi impegno di un venditore
o di un produttore, assunto nei confronti del consumatore
senza costi supplementari, di rimborsare il prezzo pagato, sostituire,
riparare, o intervenire altrimenti sul bene di consumo,
qualora esso non corrisponda alle condizioni enunciate nella
dichiarazione di garanzia o nella relativa pubblicità (art. 1,
comma 2, lett. e).
69 Pubblicata in GUCE n. L 171 del 7 luglio 1999, p. 12.
Il “difetto di conformità del bene al contratto” si verifica
quando i beni (e si parla dei soli beni mobili materiali):
a) non sono conformi alla descrizione fatta dal venditore e
non possiedono le qualità del bene che il venditore ha
presentato al consumatore come campione o modello;
b) non sono idonei ad ogni uso speciale voluto dal consumatore
e che sia stato da questi portato a conoscenza
del venditore al momento della conclusione del contratto
e che il venditore abbia accettato;
c) non sono idonei all’uso al quale servono abitualmente
beni dello stesso tipo;
d) non presentano la qualità e le prestazioni abituali di un
bene dello stesso tipo, che il consumatore può ragionevolmente
aspettarsi, tenuto conto della natura del
bene e, se del caso, delle dichiarazioni pubbliche sulle
caratteristiche specifiche dei beni fatte al riguardo dal
venditore, dal produttore o dal suo rappresentante, in
particolare nella pubblicità o sull’etichettatura.
I “rimedi” previsti in favore del consumatore per assicurare
– con modalità e termini che dipenderanno anche dalle scelte
discrezionali dei legislatori nazionali – il ripristino, senza spese,
della conformità del bene al contratto, sono la riparazione o la
sostituzione del bene, oppure una riduzione adeguata del
prezzo o la risoluzione del contratto (art. 3, comma 2).
Fare previsioni al momento su tutti i possibili riflessi della
direttiva è prematuro e di dubbia utilità. Non di meno, si possono
evidenziare alcuni aspetti che, in diversa misura, interesseranno
gli operatori del commercio elettronico una volta che
sarà adottata la direttiva.
Innanzitutto, occorre constatare che le norme previste dal
legislatore hanno carattere imperativo. Le condizioni contrattuali,
per lo più standardizzate, usate dagli imprenditori per le
compravendite in rete non potranno derogare alla disciplina di
origine comunitaria.
Stante l’oggetto della normativa, non saranno interessati
gli operatori che prestano servizio in rete, né i venditori di
beni immobili.
Per tutti gli altri imprenditori, posto che la garanzia viene
offerta a fronte dell’idea che il consumatore si fa del bene, attraverso
l’attività precontrattuale del professionista, si tratterà
di porre particolare attenzione nella descrizione del bene e nella
sua possibile raffigurazione offerta sulla pagina web. Il fatto
che non ci sia un contatto fisico del consumatore con il bene
compravenduto aumenta i rischi che il bene stesso, nel momento
in cui il consumatore lo riceve, non sia quello che ci si
poteva ragionevolmente attendere.
La direttiva non chiarisce quali sono i rapporti con le altre
norme sulle vendite a distanza, che invece interessano e influenzano
notevolmente la materia. Per quanto riguarda l’Italia,
queste norme sono per lo più contenute nella direttiva 97/7/CE
sulla vendita a distanza e nel D.Lgs. n. 185/99 che la ha recepita.
Come ormai noto, lo strumento principale di tutela nella
contrattazione a distanza è il diritto di recesso. Il consumatore
ha il diritto di ‘pentirsi’ per l’acquisto effettuato in rete entro un
certo periodo di tempo dal ricevimento della merce.
Né la direttiva 97/7/CE né la 99/44/CE chiariscono però i rapporti
tra i presupposti del diritto di recesso e quelli per l’operatività
delle garanzie, con la conseguenza che l’imprenditore potrebbe
trovarsi esposto, per così dire, ai ‘capricci’ del consumatore.
Nell’attesa che sia il legislatore italiano a chiarire questo
aspetto, la migliore soluzione è quella di predisporre documenti
contrattuali (condizioni generali di contratto, pubblicità,
depliants informativi, tagliandi di garanzia) con la massima trasparenza
possibile, in modo da non ingenerare falsi affidamenti
nei consumatori e non dar loro pretesti infondati per reclamare
la non conformità del bene al contratto. Resta fermo, in
ogni caso, il diritto di recesso nel senso che, anche se il bene
è conforme al contratto, per il fatto stesso che il consumatore
lo ha acquistato secondo le modalità della contrattazione a distanza
troverà applicazione il decreto legislativo.
Il versante nazionale
a) La regolamentazione dei nomi di dominio_
Si è detto, in precedenza, sulla rilevanza del nome di dominio
quale sistema di individuazione dei soggetti che operano
su Internet e, in particolare, di quelli che vi svolgono attività
economiche.
Il Consiglio dei Ministri, nella riunione del 12 aprile 2000,
ha approvato in via preliminare uno specifico disegno di legge
(detto “Passigli” dal nome del sottosegretario all'Industria proponente)
70, per disciplinare l'assegnazione dei nomi di dominio
e, più in particolare, per eliminare la prassi del cybersquatting,
consistente nella registrazione di un dominio da parte di un
soggetto con il solo scopo di impedirne l'uso ad altri ovvero di
farne oggetto di speculazione, con la proposta di vendita del
medesimo al soggetto maggiormente interessato del suo valore
di identificazione.
L’art. 1 di questo disegno di legge vieta l’utilizzazione, salvo
il consenso del titolare del diritto, di nomi di dominio che:
a) siano identici o simili a quelli che identificano persone
fisiche, persone giuridiche o altre organizzazioni di beni
o persone, ovvero identici o simili a marchi d'impresa o
altri segni distintivi dell'impresa o di opere dell'ingegno;
b) identificano istituzioni o cariche pubbliche, enti pubblici
o località geografiche;
c) siano nomi di genere, quando sono utilizzati per trarne
profitto, tramite cessione, o per recare un danno;
d) siano nomi tali da creare confusione o risultare ingannevoli,
anche attraverso l'utilizzazione di lingue diverse
dall'italiano.
Il disegno di legge non individua la natura giuridica di tale
buy it
70 Il disegno di legge, presentato al Senato il 3 maggio 2000 (Atto n.
4594), è pubblicato su www.interlex.it/testi/ddlnomia.htm. Sulla stessa
rivista telematica sono pubblicati una serie di articoli di commento
alla bozza di provvedimento.
elemento distintivo. Si limita infatti, per relationem, a sancire
che resta fermo “ogni altro effetto previsto dalle normative che
tutelano i predetti nomi e segni, anche con riferimento al trattamento
dei dati personali”, lasciando così insoluti i problemi finora
affrontati dalla giurisprudenza in modo oscillante.
Peraltro vale la pena di osservare che – nel 1998 – il citato
documento Linee di politica per il commercio elettronico, individuava
una possibile soluzione per la questione: quella di modificare
la legge marchi (nonché proporre in sede comunitaria
la revisione anche della direttiva sui marchi d’impresa), per
ascrivere i nomi di dominio all’interno dei segni distintivi soggetti
a registrazione 71. Soluzione – trascurata dal ddl – sulla
quale, a nostro avviso, sarebbe utile aprire una discussione
dati gli evidenti effetti positivi sia dal punto di vista disciplinare
che da quello sistematico.
L’articolo in commento continua stabilendo che l’"uso indebito"
dei nomi di dominio (quali precedentemente indicati)
prevede la possibilità di ottenere:
- un “ordine di cessazione dell'uso stesso” nonché
- un risarcimento del danno, nella misura minima di
30.000 euro.
La sentenza che accerta l'illecito o quantifica il danno ordina
la cancellazione del nome di dominio.
L’art. 2 del disegno di legge “istituzionalizza” le funzioni finora
svolte – sulla base delle regole organizzative sovranazionali della Internet Society – dalla Naming Authority (ossia, l’IAT
del CNR di Pisa), trasformandola nella “Anagrafe nazionale dei
nomi a dominio”.
È competenza dell’Anagrafe non solo individuare le modalità
di registrazione dei nomi di dominio ma anche svolgere funzioni
di giudice-arbitro, con poteri, se del caso, anche cautelari.
L’Anagrafe procederà alla registrazione del nome di dominio
richiesto dall’interessato solo se questi:
a) si assume la responsabilità della registrazione dichiarando
l’insussistenza di preclusioni;
b) accetta di sottoporsi, in caso di controversia, ad una procedura
di conciliazione gestita dall’Anagrafe medesima.
Infine, per completare il quadro, il disegno di legge stabilisce
che “i ricorsi avverso il rifiuto o l'omissione di registrazione
o contro gli atti dell'Anagrafe che, comunque, incidono sugli
effetti della registrazione medesima rientrano nella giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo. Essi devono essere
proposti davanti al tribunale amministrativo della regione ove
l'Anagrafe ha sede”.
Chi intende proporre ricorso, dunque, dovrà rivolgersi – attualmente
– al TAR della Toscana.
Vale la pena di osservare che questa disciplina - se approvata
nell'attuale formulazione - ha efficacia retroattiva,
poiché è previsto che, in sede di prima applicazione, i nomi
di dominio già registrati alla data di entrata in vigore delle
nuove disposizioni, sono inseriti nell'indicata anagrafe nazionale,
con la cancellazione automatica qualora non siano
conformi alle regole anzidette.
b) Le recenti iniziative legislative sul commercio elettronico_
Dopo le prime proposte di legge dedicate alla regolamentazione
di alcuni aspetti del commercio elettronico presentate
nel 1998 72, che non hanno avuto seguito, si segnala, di recente,
la proposta di legge d'iniziativa dell'On. Labate (Atto Camera
5513) presentata il 15 dicembre 1998.
Questa proposta molto simile alla c.d. direttiva “Monti” ha
per finalità:
a) di favorire lo sviluppo del commercio elettronico;
b) lo sviluppo della competitività per le PMI;
c) la creazione di nuova occupazione;
d) la diffusione della cultura informatica e
e) la complessiva modernizzazione della PA (art. 1).
In quest’ottica, per effetto della previsione contenuta nell’art.
2, è destinato ad essere considerato commercio elettronico
anche la transazione telematica intercorrente tra la PA e le
imprese private, nonché quella tra PA e cittadini.
Ad una generalizzata affermazione della libertà informatica,
il p.d.l. in parola vieta espressamente la prestazione di servizi
telematici lesivi dei diritti e della dignità della persona umana
e, in particolare, dei minori; quelli basati su forme di discriminazione
per motivi di sesso, razza, fede o nazionalità; quelli,
infine, lesivi della salute pubblica, della pubblica sicurezza e
della sicurezza del consumatore (art. 4).
La vigilanza circa il rispetto delle norme sul commercio elettronico
– e tra questa anche quelle cui si è fatto appena cenno
– è attribuita, per effetto di tutta una serie di modifiche da introdurre
nella normativa esistente, all’Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, che, a tal fine, avrebbe anche il compito di
coordinarsi con le autorità degli altri Paesi (art. 3). In seno all’Autorità,
le funzioni relative all’oggetto della legge dovrebbero
essere svolte dalla istituenda Commissione per i servizi e i prodotti
di comunicazione telefonica e televisiva e la Commissione
per i servizi informatizzati e il commercio elettronico.
Il p.d.l., all'art. 5, si preoccupa anche dell’accesso alla rete,
72 L’11 maggio 1998 è stato presentato al Senato un disegno di legge -
atto Senato n. 3264, d’iniziativa dei senatori Milio ed altri), recante
"Liberalizzazione della attività commerciali ed editoriali per via telematica.
Incentivi e detrazioni per favorire lo sviluppo delle attività telematiche
e del commercio elettronico", un cui testo "gemello" è stato
presentato anche alla Camera dei Deputati (Atto Camera n. 4870, Taradash
ed altri).
in ciò delegando il governo all’individuazione di una serie di disposizioni
che favoriscano:
- la semplificazione normativa e fiscale;
- lo sviluppo di progetti pilota;
- la tutela della proprietà intellettuale in tutte le sue forme;
- la regolamentazione della firma digitale espressamente
per le attività di commercio elettronico.
Peraltro, con l’art. 6, la disciplina di cui all’art. 18 del decreto Bersani verrebbe resa applicabile anche al commercio
elettronico all’ingrosso, alla vendita o esposizione di proprie
opere d’arte, ivi comprese le opere dell’ingegno a carattere
creativo, realizzate mediante supporto informatico, agli enti
pubblici o alle persone giuridiche private partecipate dallo Stato
o da enti pubblici territoriali, che vendono pubblicazioni o
altro carattere informativo, su supporto informatico, concernenti
l’oggetto della loro attività.
Quanto alla tutela dei clienti di servizi informatici, il progetto
di legge fa leva prevalentemente sul ruolo dell’informazione
che deve essere fornita dal soggetto fornitore dei servizi stessi
(art. 7). Si tratta di informazioni, dettagliatamente elencate, che
devono essere rese “facilmente accessibili, in modo diretto e
permanente”. In ciò la disposizione si mostra fedele alla scelta
operata già a livello comunitario con la direttiva 97/7/CE, poi
trasfusa nel decreto legislativo 185/99.
L’art. 8 del p.d.l. disciplina il regime dell’informazione commerciale,
che deve essere sempre identificabile come tale, così
come il soggetto per conto del quale l’attività è svolta, le offerte
promozionali (sconti, premi, regali) e le relative condizioni
di partecipazione, che devono essere “facilmente accessibili e
presentate in modo accurato e inequivocabile”. Resta salva,
per effetto della disposizione in parola, la disciplina della comunicazione
commerciale effettuata da categorie professionali
regolamentate. In questo contesto, è consentito fare ricorso
all’autoregolamentazione e quindi, anche per effetto delle associazioni
professionali, di codici deontologici di condotta a livello
comunitario e nazionale.
È contenuta, nell'art. 9, una articolata disciplina sui contratti telematici (art. 9), che tuttavia desta più di una perplessità.
La disposizione prevede che le norme contenute nei codici
e nelle leggi speciali non vengono considerate applicabili ai
contratti stipulati per via telematica qualora ne impediscano
un efficace utilizzo per il fatto che siano stipulati per via telematica
(comma 1). Per espressa previsione, inoltre, il comma 1
viene dichiarato inapplicabile:
a) ai contratti che richiedono l’intervento di un notaio;
b) ai contratti per la cui validità è richiesta la registrazione
presso la pubblica autorità;
c) ai negozi di diritto di famiglia;
d) ai negozi del diritto delle successioni.
Anche in questo caso, il fornitore di servizi è tenuto ad
un’informativa sulle modalità di conclusione del contratto, tale
da consentire alle parti un consenso pieno e consapevole. La
disposizione detta, inoltra, indicazioni dettagliate, sulla procedura
e le condizioni di conclusione dei contratti.
Il disegno di legge si chiude con una disposizione sulla composizione
non giurisdizionale delle controversie tra il fornitore di
servizi di comunicazione telematici ed il suo utente (art. 11).
c) il testo unico sui consumatori_
Come si accennava in apertura di questo paragrafo, anche
il nostro legislatore si è dimostrato sensibile alle istanze di tutela
dei consumatori che si trovano - allo stato attuale - disseminate
in molteplici testi normativi. Appare evidente che detti
testi necessitino di un raccordo per evitare delle sovrapposizioni
disciplinari, con i prevedibili dubbi interpretativi e, quindi,
paradossalmente, una diminuzione della tutela a fronte delle
molte possibilità offerte.
Per risolvere la questione, l'art. 15, comma 2, del D.Lgs. n.
185/99, prevede, a carico del Governo, l'impegno (per il momento
non adempiuto) alla predisposizione di un testo unico di
coordinamento tra la disciplina del citato decreto, le norme del
D.Lgs. n. 50/92 e gli artt. 18 e 19 del D.Lgs. n. 114/98.
Fino ad allora, “si applicano le disposizioni più favorevoli
per il consumatore”, contenute nel D.Lgs. n. 185/99.
guida al commercio elettronico 32 Il presente
capitolo è stato curato da Enzo Maria Tripodi (Indis-Unioncamere;
Univ. LUISS-Guido Carli, Roma). Le opinioni sono espresse a
titolo personale. Si ringrazia Massimiliano Granieri coautore del capitolo
nella precedente edizione della Guida.
33 Per una panoramica sulle questioni giuridiche legate ad Internet si possono
consultare le riviste telematiche www.interlex.com ovvero www.jei.it,
ove altri riferimenti, nonché i seguenti siti: www.palazzochigi.it/fsi;
www.minindustria.it/osservatorio/index.html; www.notariato.it. |
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